Testi per la vita monastica                                         San Benedetto - sezione II


scheda bio-bibliografica

Abbate Bernardo Cignitti,  OSB

Per una vita monastica più autentica

 


Dom Cignitti (1902-1971), era monaco benedettino sublacense, ed è stato Abbate del monastero S.Maria di Finalpìa (Savona) dal 1938 al 1971.      


Il presente articolo è stato estratto dalla rivista trimestrale di spiritualità monastica

ora et labora(anno XXVI – aprile-giugno 1971)

delle Benedettine del SS. Sacramento del Monastero San Benedetto di Milano.

Esso è tuttora valido per la situazione del monachesimo italiano.

 

 

 

Abbate  Bernardo  Cignitti  OSB

 

 

Per una vita monastica

più autentica

 

*   *   *


   senso  del  rinnovamento

   pluralismo

   comunità  e  comunione

   la  parola  del  Papa

   prospettive

   conclusione

 


 

« Nel lasciarvi, vorremmo chiedere a voi tutti,

perché a vostra volta ne interroghiate i vostri figli: 

a che punto stiamo? che fanno di bello e buono i carissimi monaci benedettini?

Muovono il passo nella direzione tracciata?

Sono fedeli alle indicazioni conciliari e alle direttive della Chiesa?

Siamo sicuri che voi ci darete sempre piena assicurazione a queste speranze [1].

*   *   *

Dobbiamo confessare che è difficile rispondere a questi interrogativi che il Papa ha posto agli Abbati e Priori del nostro Ordine a chiusura dell'ultimo Congresso della Confederazione Monastica. Qualcosa si è fatto e si sta facendo dopo il Concilio. La revisione organica intrapresa dai Capitoli Generali e particolari sta attuandosi nelle nostre Comunità, e la via è lunga.

Quando si vuole restaurare un antico edificio si comincia a ripulire l'ambiente, a rimuovere gli oggetti ingombranti o di cattivo gusto, a rendere più validi e più evidenti le sue strutture perché tutto sia più autentico e più vero. L'aggiornamento in fatto di orario, di consuetudini, di pratiche devozionali, di vita regolare, ecc.; la revisione dell'Ufficio Divino; soprattutto l'aver introdotto nell'orario quotidiano la lectio divina come una componente necessaria della vita ordinaria del monaco; una rivalorizzazione del lavoro monastico come espressione di vita evangelica; la riscoperta della teologia monastica che deve essere alla base di tutta la formazione del monaco, tutti questi sono autentici valori che si stanno faticosamente riguadagnando dopo il Concilio e che formano il rinnovamento voluto dalla Chiesa. 

È evidente che tutte le comunità monastiche italiane sono animate da un sincero spirito di rinnovamento e, se è vero che conservano o incrementano un certo tipo di attività apostolica esterna, è pur vero che tutte vogliono salvare lo spirito monastico e tutte fanno del loro meglio per presentare un volto nuovo e più autentico di vita monastica dando maggior rilievo alle componenti della “ratio quotidiana” che sono l'Opus Dei, la lectio divina e il lavoro.

Eppure si sente che manca qualcosa e che forse qualcosa d'altro si potrebbe fare per riuscire a dare un volto più autentico al monachesimo in Italia.

 

Senso  del  rinnovamento

Prima di suggerire qualche idea, dobbiamo intenderci sul tema del rinnovamento. Come ci ha ricordato il Decreto Perfectæ caritatis, un istituto religioso si rinnova quando cerca di ritrovare la sorgente da cui è nato (cfr. n. 2) e si sforza di averla, per così dire, a portata di mano. O rinnovarsi o rassegnarsi a sopravvivere: questa sembra oggi la sorte di ogni vita religiosa.

Alle necessità particolari di un periodo storico lo Spirito Santo rispose suscitando un particolare carisma che fiorì in santità e in un certo tipo di servizio di apostolato. Se quelle necessità, per lo sviluppo della Chiesa e della società, vengono a cessare e se si vuole tenere in vita l'istituto religioso, bisogna necessariamente cercare un'altra ispirazione per un altro particolare servizio. Di qui la crisi interna di alcuni istituti che soffrono nella ricerca spesso affannosa di qualcosa di nuovo che giustifichi la propria presenza nella Chiesa.

Per la vita monastica non c'è questa complicazione.   « Mentre molti istituti devono la loro origine a un bisogno specifico della Chiesa, alle circostanze di un'epoca, la vita monastica nella sua forma originaria non ha voluto essere che l'approfondimento e lo sviluppo della vita cristiana col dono totale di se stessi » [2].

Basta approfondire e sviluppare la vocazione cristiana per cogliere i valori della vita monastica, e osserva ancora il Card. Willebrands:  « Non vi è nessun particolarismo, o separatismo nella vita monastica, ma la pienezza e l'universalità della vita divina alla quale noi partecipiamo ».

E, dopo aver citato il passo di S. Paolo ai Romani (8, 11), conclude:   « Ecco l'universalità della vita monastica, che si apre a ogni uomo e offre lo spazio allo sviluppo dei doni dello Spirito e alla libertà dei figli di Dio ».

Viene a proposito il discorso che l'attuale Abbate Primate tenne a Subiaco nel luglio 1970, in occasione dell'inaugurazione di una lampada motiva nel S. Speco Pro Europa una. Egli osservava che se:   « nella storia della civiltà occidentale è quasi impossibile poter nascondere i chiari e spiccati indizi che assicurano il suo posto a San Benedetto... è anche certo che dando vita al monachesimo cenobitico e fondando il suo primo monastero, non mirava tanto a fondare un organismo per la conservazione di un’alta cultura e di una scuola per la trasmissione di essa... quanto a darci un esempio di una società cristiana fondata sul Vangelo, impregnata dall'azione dello Spirito Santo. Scrivendo la sua Regola egli voleva mostrarci come ciascuno di noi doveva essere cristiano e come fosse possibile creare una società totalmente cristiana ed evangelica.

San Benedetto non ci dice nulla della cultura greco-romana; non prevedeva neppure un’utilizzazione della struttura monastica per insegnare l'agricoltura, le arti e la grammatica. Tutto questo esula dal suo pensiero e dal suo stile; esso è stato un prodotto del tutto secondario, quasi inaspettato. Si può con sicurezza affermare che lo scopo di san Benedetto non era culturale, ma religioso nel significato più autentico di questo termine... Ispiratore principale della Regula Monasteriorum è stato il Vangelo. San Benedetto dando vita al monachesimo cenobitico ebbe un preciso scopo: quello di creare una struttura nella quale un gruppo di uomini, totalmente dediti a ricercare nella propria vita personale e in quella comune il senso della presenza di Dio rivelato per mezzo del suo Figlio, potessero scoprire i mezzi più efficaci per tale ricerca. In questo senso ciascuna comunità monastica assumeva le dimensioni di una piccola chiesa di una piccola società cristiana ideale, modellata sulla primitiva comunità cristiana apostolica. Movendo da questa esigenza interiore di ricerca di Dio rivelato nel suo Figlio, la comunità monastica trovava la sua fondamentale unità nella persona di Cristo »[3].

Se vogliamo trovare un solco per il rinnovamento della nostra vita monastica, dobbiamo ricercarlo in questa direzione. È la concezione indicta dal n. 9 del Decreto Perfectæ caritatis: « Ufficio principale dei monaci è quello di prestare umile e insieme nobile servizio alla  Divina Maestà entro le mura del monastero »; è la concezione che emerge come nota dominante nelle risposte a un’inchiesta lanciata dall’Abbate Brasó nel 1966 [4]; ma soprattutto è la concezione della vita monastica che è stata spiegata ripetutamente da papa Paolo VI quando ha parlato ai benedettini (Montecassino 1964; Roma 1966, 1970).

 

Pluralismo

Oggi si è d'accordo sul principio del pluralismo della vita monastica, ma sarebbe una povera cosa se questo si riducesse al pluralismo in fatto di breviario o di lingua liturgica, oppure in fatto di osservanza o di strutture giuridiche. È necessario pensare a un pluralismo di impostazione della vita e della concezione ideale stessa della professione del monaco. Purtroppo dobbiamo riconoscere che il citato n. 9 del decreto conciliare, col suo inciso intra septa monasterii, non è chiaro: tutti si rifanno adesso, sia per affermare una vita monastica prevalentemente interiore sia per legittimare ogni forma di apostolato.

In pratica, al momento attuale, nel monachesimo italiano non c'è nessun pluralismo, ma solo uniformità generica nel fare tutto: servizio parrocchiale, assistenza spirituale istituti, aiuto al clero di altre parrocchie, scuole fuori di monastero, predicazione fuori di comunità, attività interna che trasforma sistematicamente il monastero in una casa di esercizi o in un pensionato.

Tutto si può fare, si dice, per il principio del pluralismo; basta che il monaco abbia spirito monastico e che lavori a nome della comunità. Per camminare con i tempi, si dice, ed essere al servizio della Chiesa, il monaco (la comunità) deve ripetere l'esperienza storica di altri tempi, quando non c'erano ordini mendicanti e congregazioni particolari a compiere un servizio di supplenza o di sussidiarietà alla missione apostolica dei vescovi e quando i monaci entravano nel gioco pastorale della Chiesa. Oggi, anzi, si tratta di un apostolato più aperto e più agile; ciò non vieta né impedisce che il monaco rimanga fedele alla propria professione e che trovi il suo perno nell'osservanza regolare. Egli si muoverà secondo l'ubbidienza e cercherà un adeguato contrappeso interiore in una ricchezza spirituale più abbondante che egli può attingere dalla liturgia e dalla lectio divina

In questa affannosa ricerca di fare tutto nella speranza di realizzare un certo “rinnovamento” è facile che ci si lasci prendere la mano dall'urgenza di fare più che di essere qualcosa di nuovo.

In un vero pluralismo, si può ben pensare a dar vita a una comunità che non sia condizionata dal servizio di una parrocchia o di un santuario, né dall'ambiente urbano o industriale, né da quelle attività che portano il monaco a prestare il suo servizio (sia pure solo quello della messa) fuori dal monastero. Parliamo, ripeto, di una comunità sola. Le comunità attuali continueranno nel loro sforzo di migliorarsi e di realizzare il rinnovamento post-conciliare come meglio potranno e rimarranno dove sono; ma si può auspicare che da qualche parte possa nascere una comunità con indirizzo diverso.

 

Comunità  e  comunione

Pensiamo a una vita benedettina che si svolga realmente intra septa monasterii, informa cenobitica, non chiusa ma aperta al mondo e sul mondo il quale, mai come oggi, ha bisogno di trovare “ambiti” di spiritualità e di silenzio. Pensiamo a una famiglia monastica semplicemente benedettina, non trappista né eremitica o certosina, dove sia evidente e in primo piano la comunità, nel senso teologico rimesso in luce dal Concilio, come « segno di Cristo », dove tutti i fratelli sono al servizio della carità, dove la comunione fraterna è una realtà vissuta e sofferta e rifatta nuova ogni giorno, dove la stessa autorità è il primo insostituibile servizio che sostenta e alimenta le membra più in funzione di cuore che di testa di comando (si capisce, si tratta di un cuore consapevole e responsabile), come ci sembra abbia voluto dire il Signore quando affidò a Pietro la suprema autorità della Chiesa (Gv. 21, 15-17).

Insistiamo su questo senso di comunità. Nella vita monastica ci può essere una comunità senza una comunione, come nel mondo si può trovare una comunione senza una comunità: nei due casi la parola “comunità” è solo struttura e quadro esteriore.

Le nostre comunità salvano facilmente la loro unità giuridica; ma chi entra e ne fa esperienza, non sempre ritrova la comunione e la famiglia.

Oggi un giovane (chierico o laico) viene in monastero per cercarvi prima di tutto questa realtà; prima ancora dell’Opus Dei e del silenzio, prima di una struttura ben ordinata, egli cerca questa “koinonìa-diakonìa” già in atto in monastero, con una espressione chiara e costante. È in questa comunità-comunione che vuol trovare le altre realtà spirituali che sono proprie della vita monastica: preghiera, lectio divina, lavoro e separazione dal mondo; è in questa comunione che si può offrire al mondo e alla Chiesa « il quadro di una officina ideale del servizio divino, di una piccola società ideale » [5]; è in questa comunione che trova la tipicità del monastero benedettino diversa da quella di ogni altro istituto religioso; è in questa comunione che vive e si muove in una atmosfera di armonia familiare mettendo in comune una profonda ricchezza di carità che si alimenta di lectio divina e di preghiera personale, ricchezza che viene offerta “sine invidia” ai fratelli di dentro e ai fratelli di fuori (gli ospiti).

La vita cenobitica è un fenomeno spirituale specificamente benedettino: la stabilità delle membra del capo, più che un aspetto giuridico, è un carisma di carità che è l'anima della vita in comune.

L'Abbate, che abbiamo chiamato “il cuore” della comunità, è il primo monaco, è il servo principale nella famiglia, è colui che presiede a questa vita di comunione nella quale sono coinvolti tutti i fratelli della comunità e di cui deve rendere conto a Dio.

 

La  parola  del  Papa

Pensiamo a una comunità che prenda la parola del Papa come parola ispirata, come un messaggio profetico per il rinnovamento del monachesimo italiano. Siamo sinceri: che incidenza ha il nostro monachesimo sulla Chiesa? « Che fanno di bello e di buono i carissimi monaci benedettini?...». Il Papa ci classifica senz'altro fra i contemplativi nel senso classico, quando la contemplazione era concepita come vita attiva dello spirito, non in contrapposizione a un'attività esteriore:

« Vi basti questo nostro riconoscimento della vostra specifica professione di religiosi contemplativi... Voi siete monaci: siete cioè uomini singolari, che uscendo, in qualche modo, dal consorzio della vita profana, vi siete rifugiati nella solitudine non solo esteriore, ma interiore altresì, nel raccoglimento; siete uomini del silenzio e della preghiera... siete cercatori di Dio... siete consacrati allo studio della divina presenza... siete esperti delle cose invisibili che sono le più vere, le più reali. Per questo vorremmo ascoltare voi, vigilanti nel crepuscolo della vita presente, e profeti dell'aurora che attende i fedeli » [6].

 Non deve far paura l'accento sulla vita interiore e sulla separazione dal mondo, quasi che si debba trasformare la vita cenobitica in vita eremitica. La vita monastica prende tutto il monaco per introdurlo alla presenza di Dio e nel cuore della Chiesa. Abbiamo già detto che non ci si fa monaci per applicarci ad un particolare servizio, sia pure quello di far una liturgia solenne. Con la professione monastica il monaco rimane nel solco della professione cristiana avvenuta nel battesimo con l'unico intento di evidenziare più che sia possibile “il mistero pasquale”, così come, entrando nella comunità monastica, rimane nel solco della comunità ecclesiale con lo scopo di rendere più visibile la sua natura di “comunità-comunione”.

 La vita dello spirito e la separazione dal mondo sono esigite da questa profondità in cui si colloca la professione e sono la sorgente della missione di servizio nella carità che possiamo offrire alla Chiesa.

La clausura è una indicazione chiara e necessaria per dire che in quel luogo abitano alcuni fratelli che si sono liberati dai limiti di una vita ordinaria per essere più disponibili ai movimenti della carità, per essere in comunione tra loro e con il mondo, per offrire un esempio di vita fraterna dove c'è un cuore solo e un'anima sola; per dire che alcuni fratelli « sub regula vel abbatte » vivono insieme il mistero della comunione con Dio e tra loro, in tale intensità da poter diventare un centro di attrazione e di espansione per altri fratelli che vivono nella diaspora e che hanno bisogno di tanto in tanto di ritrovare la loro unità in Cristo.

« La Chiesa ha bisogno ancor oggi di codesta forma di vita religiosa; il mondo ancor oggi ne ha bisogno... Sì, la Chiesa e il mondo, per differenti ma convergenti ragioni, hanno bisogno che san Benedetto esca dalla comunità ecclesiale sociale che si circondi del suo recinto di solitudine e di silenzio e di là ci chiami alle sue soglie claustrali » [7].

 

Prospettive

Che fare? Ci vorrebbe un grande monaco, come di tempo in tempo il Signore  ha provveduto per la rinascita del monachesimo. Ma non si può aspettare il messia monastico e non si può neppure pretendere che questo tipo di vita monastica più interiore nasca da una lenta trasformazione delle nostre comunità oppure da una fondazione che segua le norme ordinarie delle nostre Costituzioni. 

Prima di suggerire una soluzione, ci sembra che non si possa pensare a una comunità italiana capace di privarsi in una volta sola di un numero di monaci sufficiente per dare inizio a una nuova esperienza. Tutte quante sono oberate di lavoro e nessun Abbate, senza mettere in pericolo la vita della propria comunità, o da solo tentare una simile iniziativa. 

È necessario unire le forze con la collaborazione di qualche comunità: in tutte le nostre comunità c'è qualche monaco che aspira a questo tipo di rinnovamento, vi aspira e aspetta confidando in Dio.

Sono monaci di buono spirito, anche se appartengono a famiglie monastiche diverse. Sono tutti d'accordo sui principi e sulle direttive che bisognerebbe seguire e facilmente si intenderebbero per una realizzazione concreta. L'omogeneità in questo gruppo, più che in fatto di età e di cultura, ci dev'essere nella chiarezza dei princìpi, nella volontà sincera di voler “fare insieme”, con un senso di complementarità, l'esperienza di una vita monastica diversa dall'attuale forma, secondo direttive di cui tutti devono essere convinti.

È necessario partire da un atteggiamento di fede e di umiltà, senza nessuna pretesa di fare i riformatori, senza voler richiamare l'attenzione su di sé o ripromettersi chissà quale successo. Gli scontenti e gli amanti di novità rimangano dove sono.

È necessario accettare la sorte del seme che si nasconde e muore, con la speranza che poi nasca una pianta.

È necessario non aver fretta: occorre la pazienza forte e serena di chi si fida di Dio e di chi, fra le dimensioni della croce, preferisce quella della profondità.

È necessario cominciare in silenzio, con molta preghiera personale, con grande spirito di raccoglimento e di sacrificio e anche con una buona carica di ottimismo e di buon umore che deve venir fuori fra le sorprese non sempre liete della giornata.

È necessario che, anche chi ha già fatto la propria esperienza monastica, comprenda che facendo parte di questa comunità sta rifacendo il proprio noviziato.

È necessario, ripetiamo, unire le forze, perché non nasca un aborto. Gli sforzi di singoli, in ogni singola comunità, non approderebbero a nulla.

Vocazioni che aspirano a questo, siamo convinti che ce ne siano, dentro e fuori; ci consta che qualcuno si è avvicinato alle nostre comunità, ma che preferisce aspettare, in attesa che qualcosa di nuovo si muova. Perché non permettere che qualche monaco che possa collaborare si stacchi, ad tempus, dalla propria comunità? È un caso chiaramente contemplato dalle nostre Costituzioni per la nascita di una nuova forma di vita monastica.

Ci sono altri aspetti giuridici che si potranno chiarire e risolvere in piena armonia con i Superiori Maggiori: è evidente che trattandosi di nuove esperienze, non si può partire da un fondamento giuridico ben preciso. Il diritto sarà necessario dopo, per dare consistenza e strutture vitali a ciò che è nato: il diritto non fa nascere, ma è indispensabile perché viva ciò che è nato. Nel nostro caso, se sono chiari e ben definiti i princìpi ideali, se le persone che si impegnano ad attuarli danno affidamento per serietà ed esperienza monastica, se c'è un minimo di autosufficienza per iniziare, se un Superiore Maggiore segue l'iniziativa con vigilanza responsabile, pensiamo si possa dare fiducia ad un tentativo in tal senso, senza troppe preoccupazioni giuridiche e senza aspettare tempi migliori o più maturi.

 

Conclusione

 Prima di concludere queste brevi note possiamo dare una risposta alle obiezioni che potrebbero sorgere nei confronti di una tale proposta da parte di chi afferma che « nessuno ci impedisce di essere veri monaci restando dove la Provvidenza ci ha fatti nascere e vivere finora; che anzi è carità verso gli altri rimanere dove si è, potendo essere il sale o il lievito a beneficio della comunità. Come si fa ad essere sicuri che Dio chieda a noi e alla comunità il sacrificio di una rottura? ».

È bene ricordare che cercando di far nascere una pianta nuova, non si intende giudicare nessun attuale indirizzo delle nostre comunità, ma si chiede solo una collaborazione, volontaria e libera.

In quanto poi al “sale” o al “lievito”, che evidentemente per agire non richiedono terra nuova o farina nuova, noi vogliamo proporre l'altra parabola del “vino nuovo” in “otri nuovi”. È in questa parabola che si parla di rinnovamento

Comunque dobbiamo rispondere agli interrogativi che ci ha posti il Papa nell'ultimo Congresso. Perché le nostre comunità italiane abbiano più mordente, dobbiamo affrontare il problema del nostro rinnovamento. Se, nella genericità di espressione di cui ora soffriamo, potessimo offrire un solo esempio di una comunità diversa, con un monachesimo più raccolto, più semplice, più interiore e più libero dalle complicazioni di un apostolato diretto verso l'esterno; con un monachesimo quale lo ha indicato chiaramente papa Paolo VI e quale abbiamo noi stessi delineato nei Princìpi dottrinali premessi alle Dichiarazioni sulla Regola per la nostra Provincia Italiana, daremmo finalmente la risposta adeguata a tutto il problema.

Quel che preme è di raccogliere “i segni dei tempi” e di non cadere in un peccato di omissione. Che cosa sarà del monachesimo italiano fra dieci o vent'anni? Quello che noi monaci degli anni '70 avremo saputo seminare

*   *   *


Note

[1] Paolo VI, Discorso agli Abbati nel Congresso 1970, L’Osservatore Romano, I ottobre 1970.

[2] Card. G. Willebrands, Discorso agli Abbati nel Congresso della Confederazione Monastica, Roma, Collegio S. Anselmo, 26 settembre 1970.

[3] Dal «Sacro Speco», Subiaco, n. 4, 1970.

[4] Visioni attuali sulla vita monastica, Montserrat 1966; cfr. Des hommes en quête de Dieu. La Règle de St. Benoît, Les éditions du Cerf, 1967, pp. 165-171.

[5] Paolo VI, Discorso a Montecassino, 1964.

[6] Paolo VI, Discorso a Roma, 1966.

[7] Paolo VI, Discorso a Montecassino, 1964.

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