Testi per la vita monastica                                         San Benedetto - sezione II


scheda bio-bibliografica

Abbate Sebastiano Bovo OSB

Il « novum » di san Benedetto


Il testo che segue è la trascrizione di un colloquio che l’Abbate Bovo ebbe con una Comunità monastica femminile benedettina nel 1980, alla fine del XV centenario della morte di san Benedetto.

Non fu una Conferenza, ma una parola informale, spontanea.

Poiché poco dopo avvenne la sua morte precoce, è bello sentirlo come un suo ricordo finale.


Alla conclusione del XV centenario della nascita di san Benedetto, che ha avuto come filo conduttore lo studio della santa Regola - per capirla, approfondirla nella sua spiritualità, per viverla come aiuto forte nel nostro cammino verso Dio, per concretizzare la nostra vita di figli di san Benedetto, momento per momento nella nostra giornata - siamo spinti a continuare questa conoscenza del nostro Padre, riscoprendolo soprattutto attraverso il 2° Libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno.

Una riflessione davvero nuova e geniale ci viene presentata dal P. Sebastiano Bovo: dalla Regola possiamo sapere moltissimo di san Benedetto, ma siamo noi che lo ricaviamo; nel 2° Libro dei Dialoghi invece abbiamo un interprete qualificatissimo, perché molto vicino, per cogliere l'anima del Santo.

È interessante intrattenersi su qualche spunto particolare della vita del nostro santo Padre, tratto dal 2° Libro dei Dialoghi, senza dimenticare la Regola, anzi, proprio per metterci in contatto con la persona del Santo, per avvicinarci il più possibile allo spirito con il quale deve essere letta la Regola.

Noi corriamo il rischio di non cogliere nella Regola l'itinerario spirituale compiuto da Benedetto attraverso gli eventi della sua vita (Affile, Subiaco, la valle dell'Aniene, Montecassino),  fermandoci semplicemente sui fatti disciplinari, mentre è proprio nel 2° Libro dei Dialoghi che capiamo l'anima con cui la Regola deve essere vissuta.

Negli ultimi capitoli della Regola, san Benedetto non parla di sé, parla del monastero e del monaco, del clima di carità fraterna che deve animarli. E questo clima è il suo testamento spirituale di Padre. La caratteristica della Regola è veramente questo sbocco d'amore: arrivare ad essere pieni di amore di Dio, amore che non può poi non riversarsi sugli altri. Benedetto, pur essendo in mezzo    a tradizioni solenni, ha saputo dare la sua impronta: portare il monaco alla pienezza dell’amore      di Dio.


NB: La sigla RM indica la Regula Magistri (regola anonima, di poco anteriore a san Benedetto, in uso nella zona di Subiaco). 

L’Abbate Bovo non escludeva che la Regula Magistri fosse la Regola giovanile di san Benedetto. Tutti i riferimenti che ad essa egli fa, possono essere letti anche come un rapporto di san Benedetto con la Regola che egli aveva scritto negli anni giovanili.


© Ora et labora, quaderni di interesse monastico - anno XXXVI, n.2, aprile-giugno 1981 - Milano 


a cura dei monaci della  Abbazia Nostra Signora della Trinità - Morfasso (PC) Italia

 

 

 

 

 

p. Sebastiano  Bovo  O.S.B.

Il  « novum » di  san  Benedetto

 

Alla chiusura del XV centenario del nostro santo Padre, abbiamo tutti la mente e il cuore pieni del ricordo di san Benedetto. Si ha però l'impressione che, fra tante cose buone, rette e giuste, forse il filo conduttore di questo centenario sia stato un po' falsato, o almeno un po' spostato su aspetti del nostro Padre e della sua opera, che non erano fondamentali.

L'opera sua è stata visualizzata in questa direzione: san Benedetto, Padre dell'Europa; quindi:  « ora et labora », « croce, libro e aratro »... Giustissimo! Chi può contestare che san Benedetto sia stato l'iniziatore di una nuova cultura da cui è nata l'anima europea? Ma san Benedetto non è sostanzialmente lì; e questo anche secondo i pareri di molti che proprio ora, alla fine dell'anno centenario, si sono messi a indagare un po' più profondamente sull’anima del nostro santo Padre. Assistiamo a una nuova valorizzazione del 2° Libro dei Dialoghi, più ancora che della Regola.

Chi può dire che la regola non sia l'opera più bella di san Benedetto? Però, anche, chi può dire che il 2° Libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno dovesse esser messo da parte? Certo, dalla Regola possiamo sapere moltissimo di san Benedetto, ma siamo noi che lo ricaviamo; invece nel 2° Libro dei Dialoghi abbiamo un interprete qualificatissimo per cogliere l'animo del Santo.

Cosa non si è fatto dire a san Benedetto per mezzo della Regola! Basta guardare le differenti realizzazioni che attraverso la storia e anche oggi si richiamano alla Regola di san Benedetto. La Regola è sempre una grandissima luce, ma lasciata un po' in balia di chi la legge e la interpreta; e noi non siamo sempre tanto ispirati nel leggerla, bisogna riconoscerlo.

Sarebbe bene domandarsi se oggi siamo proprio nella situazione migliore per cogliere quello che san Benedetto dice nella Regola; o se in molti casi non ci si è allontanati anche troppo da essa, facendo dire a san Benedetto non quello che lui voleva dire, ma quello che alla nostra mentalità sembra giusto.

Invece, nel 2° Libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno - questo grandissimo uomo pieno di Spirito Santo - abbiamo un'interpretazione della vita di san Benedetto infinitamente più autoritativa di quella che noi, oggi specialmente, possiamo trarre dalla Regola.

La Regola è un documento indiretto - suo prodotto magnifico, splendido - ma non è la sua biografia, anche se è vero che, come dice san Gregorio, benedetto non ha potuto fare niente di diverso da quello che scrive. Però è comprensibile la rivalorizzazione del Libro dei Dialoghi per cogliere l'anima autentica del nostro santo Padre, onde metterci in una più sicura linea di interpretazione della sua vita e del suo carisma, in quanto in quella linea abbiamo una guida estremamente qualificata, oltre che assai vicina a san Benedetto stesso. Infatti, san Gregorio era in contatto quasi diretto con quest'ultimo attraverso i suoi testimoni oculari, che nomina all'inizio del Prologo del 2° Libro dei Dialoghi: i tre abati di Montecassino e quello di Subiaco, che avevano conosciuto personalmente san Benedetto.

È allora interessante intrattenersi su qualche spunto particolare della vita del nostro santo Padre tratta dal 2° Libro dei Dialoghi, senza dimenticare per questo la Regola, anzi proprio per metterci in contatto con la persona del Santo, allo scopo di avvicinarci il più possibile allo spirito col quale dovrebbe essere letta la Regola. Avviciniamoci con devota religiosità, quasi come se il 2° Libro dei Dialoghi fosse nei riguardi di san Benedetto quello che sono i Vangeli per il Signore. Noi cogliamo certamente la luminosità nell'animo del Signore attraverso i suoi discorsi, il discorso della montagna, per esempio: però dobbiamo anche ammettere che lo cogliamo di più attraverso il racconto dei suoi fatti, tramandati dagli evangelisti. Fatte le debite proporzioni, potremmo mettere la Regola riguardo a san Benedetto sul piano del discorso della montagna riguardo al Cristo.

 

Tornando dunque ai Dialoghi, domandiamoci: quando san Benedetto è diventato veramente il nostro santo Padre?

La Regola non ce lo dice, ce lo presenta subito tale, ma nel Libro dei Dialoghi - se lo leggiamo attentamente - possiamo cogliere questo momento fondamentale.

Non è stato il momento della conversione; e con questo non diciamo che esso non sia pieno d'istruzione per i monaci d'ogni tempo. Non è stato nemmeno il momento di Affile; e neppure, in un certo senso, i tre anni nella grotta di Subiaco, benché siano momenti quanto mai preziosi, perennemente ricchi e capaci di dare luce alla nostra vita.

Io penso - anche se ognuno conserva il diritto di non condividere - che il momento in cui san Benedetto è diventato veramente il Padre del monachesimo cenobitico, è Vicovaro. Sembrerà strano, eppure ciò avviene proprio quando ha sperimentato il fallimento più completo. Fallimento che san Gregorio non si preoccupa affatto di giustificare, anzi lo mette in rilievo. Gregorio lo fa per la sua visione teologica: dagli insuccessi Dio trae i successi.

Chi ha seguito i preziosi commenti del padre De Vogüé[1] ha visto come egli mette in rilievo una nuova rilettura del 2° Libro dei Dialoghi. Anche questo è significativo: che il padre De Vogüé, oggi un'autorità nella cognizione dei testi monastic - compresa naturalmente la RB -, si sia dato ultimamente a studiare i Dialoghi, per rilevare l'animo del nostro santo Padre.

Quello di Vicovaro è dunque un momento provvidenziale, senza il quale non ci sarebbe forse stato l’Ordine benedettino. Perché a Vicovaro san Benedetto ha avuto l'esperienza di quello che può diventare una vita cenobitica; egli che aveva cominciato con la vita eremitica, a Vicovaro si è reso conto di tutto quello che dirà nel capitolo 1°, cioè quanto può essere pericoloso cominciare con la vita eremitica.

Fra le righe, san Gregorio dimostra che il suo insuccesso a Vicovaro è dovuto al fervor novitius: un giovane abate pieno di fervore, pieno di rigore - un santo, certo, che si era riempito di Spirito Santo -; ma se il Signore gli ha messo sulla strada Vicovaro, vuol dire che doveva fare progressi anche attraverso quegli insuccessi.

È un'ipotesi, ma forse, se avesse avuto esperienza - come poi dirà, di horum qui non conversationis fervore novizio sed monasterii diuturna probatione didicerunt contra diabolum fraterna ex acie -, se avesse avuto un allenamento cenobitico, sarebbe riuscito a portare avanti l'esperienza di Vicovaro senza la conclusione catastrofica che conobbe. A leggere la descrizione del genus eremitarum che san Benedetto fa nel 1° capitolo della Regola, si direbbe che egli fa un'autoaccusa di essere arrivato alla vita cenobitica impreparato, avendo cominciato con la vita eremitica, per cui è giusto il passaggio dal cenobitismo all’eremitismo, non il contrario.

Quello che comunque rimane è che li ha conosciuto la vita cenobitica e le sue miserie, alle quali addirittura si è ribellato.

Ha fatto bene? Ha fatto male? Sappiamo che c'è una discussione fra Pietro e Gregorio; questi, da par suo, spiega semplicemente che il Signore ha permesso così per fargli fare altri passi. D'accordo, questo è un modo di interpretare i segni di Dio, ma in realtà Gregorio li ha interpretati così conoscendo quello che è venuto dopo; però lì per lì, secondo il buon senso, è giusto anche ciò che dice Pietro:  «Perché non rimanere dove il Signore ti ha messo, anche se c'è difficoltà? ». Il ragionamento di Pietro è molto più plausibile e Gregorio ha il sopravvento solo perché conosceva già il seguito della storia.

Comunque, a Vicovaro san Benedetto ha conosciuto la disciplina regularis o regularis vitæ custodia, che esalta tanto nella vita cenobitica come preparazione alla vita eremitica nel cap. 1° della Regola; e ha conosciuto soprattutto, o perlomeno ha intuito, tutte le possibilità di sviluppo della carità, che sarà il vero assillo e il vero novum di san Benedetto.

Non che la vita eremitica non possa portare al vertice della carità, ma c'è grandissimo pericolo che sia una carità manchevole o puramente astratta se non si è fatta prima l'esperienza terra terra, gomito a gomito con i fratelli. Sono convinto che lì san Benedetto l’ha intuito fino ad arrivare a cambiare teoria, perché è sorprendente il cap.1° della Regola per uno che ha cominciato invece con la vita eremitica: è una sconfessione. No, non si deve iniziare così la vita monastica, ci vuole prima di tutto l’ammaestramento, l'arricchimento che viene dalla vita cenobitica. È in quel momento che san Benedetto da eremita diventa cenobitica, cioè si avvicina a quello che sarà il nostro Patriarca.

 

A Subiaco, di ritorno da Vicovaro, san Benedetto dà decisamente inizio alla vita cenobitica. Ci si poteva aspettare che dopo quell'esperienza catastrofica, tornato a Subiaco, si confermasse ancor più nella vita eremitica. Invece comincia decisamente con la vita cenobitica; e la vita del monastero è regolata secondo la Regula Magistri: il monastero che egli fonda là e gli altri dodici che fonda nella valle dell'Aniene sono regolati sulla RM: divisione della comunità in decanie, alle quali presiede un preposito; crescendo la comunità, distribuzione in vari monasteri, ogni monastero con il suo superiore; ogni monastero ha il suo ufficio divino; finita la salmodia c'è la preghiera silenziosa di tutta la comunità: tutti elementi che si trovano nel 2° Libro dei Dialoghi, e che corrispondono alla RM. 

Tuttavia, ecco un altro passo che cogliamo leggendo il 2° Libro dei Dialoghi: san Benedetto riserva a sé alcuni monaci. Paucos vero secum retinuit quos in sua præsentia arctius erudiri iudicaret: conserva presso di sé alcuni, tra i quali forse Placido e Mauro, che giudicava suscettibili di una particolare formazione: è l'inizio dell'istituto benedettino. Se tutto fosse andato avanti con l'istituzione di Subiaco, con i dodici monasteri che aveva fondato, l'Ordine benedettino avrebbe avuto la RM come sua regola, perché la vita cenobitica di Subiaco è basata, come abbiamo detto, su di essa.

Ma accanto a questa disciplina, o accanto ai monasteri che vivevano quella regola, san Benedetto trattiene intorno a sé un gruppetto al quale dà la sua istruzione diretta, la sua regola. Ci si domanda se su questo gruppetto non siano scaturiti i primi sprazzi del suo genio, chiamando così - in termini umani - i primi sprazzi della grazia particolare che Dio gli aveva riservata. Così matura progressivamente il vero volto di san Benedetto, il vero Padre nostro. Lo è sempre stato, certo: non possiamo sottovalutare i momenti della sua vita anteriore, momenti preziosi anche per la nostra vita; ma se leggiamo bene il 2° Libro dei Dialoghi, cogliamo quello che è tipicamente nostro. Pare che trattenendo presso di sé questo piccolo gruppo, san Benedetto abbia voluto dire in un modo velato ma abbastanza eloquente:  « Io ho in mente un'altra cosa, pur basata su ciò che io stesso ho organizzato attorno a me nei dodici monasteri... Ho in mente una cosa che non ancora posso realizzare, un genere di vita cenobitica ma con un'altra anima, diversa da quella che si viveva a Vicovaro, diversa da quella che si vive in questi dodici monasteri...».  È uno sprazzo particolare dello Spirito santo che lo avrebbe indirizzato in un'altra via. E proprio nel gruppetto che si era raccolto attorno a sé ha incominciato ad irradiare quella luce particolare.

A un certo punto, san Gregorio parla di Fiorenzo e delle sue insidie che lo costringono a emigrare, benché non fosse impossibile allontanare Fiorenzo dall'ambito del monastero. Eppure vediamo che anche quando gli dicono che Fiorenzo è morto, lui continua la sua via: avrebbe potuto tornare indietro, se Subiaco fosse stato il suo ideale. Perché ha continuato verso una meta che ancora non conosceva, come Abramo?

 

Se ne va con il suo nucleo, il nucleo nuovo, i primi veri benedettini; e se ne va non senza contrasti, ma con in cuore il suo progetto, con le prime pietre dell'edificio nuovo: qui comincia la sua vera paternità, il suo munus fundatoris; è in questo nucleo che noi cogliamo la prima cellula della grande fondazione monastica benedettina. Comincia a operare la grazia particolare che egli ha avuto e che doveva portare nel mondo, alla cui base c'è un'obbedienza allo Spirito santo, passando sopra a quella che era stata la sua stessa creatura. Ecco il significato di quel raccogliersi un gruppo attorno a sé, del partire in sèguito a difficoltà non insormontabili, del continuare ad andarsene nonostante gli venisse detto che le difficoltà erano cessate.

Poteva tornare nel nido che egli stesso aveva fondato. No, segue l'impulso della grazia, la quale ha questo significato: obbedisci allo Spirito santo, anche passando sopra alla sua stessa creatura. Perenne rinnovata disponibilità allo Spirito: questa la cosa fondamentale della Regola. Possiamo coglierlo, rileggendola con intelligenza più illuminata, se teniamo presente come è stata la sua vita.

La Regola non è un codice disciplinare, è un codice in cui ci sono indicazioni per dare sempre più spazio allo Spirito. Sicché, se ci riduciamo semplicemente, come spesso si fa - e come spesso si sono ridotte le riforme monastiche -, a una rilettura puramente materiale della Regola, ne tradiamo lo spirito. Questo non significa che non dobbiamo mettere in pratica quello che dice la Regola; ma la funzione, la finalità da mettere in pratica attraverso queste norme, non è di sentirsi soddisfatti disciplinarmente, ma di sentire che hanno prodotto il loro effetto solo se mi aprono allo Spirito, se mi aprono il cuore a superarmi continuamente. Alla fine san Benedetto dice: dopo che avete fatto tutto, questa Regola è una minima incoazione... è teologica questa affermazione! Non è semplice umiltà, non è iperbole, ma è interpretazione teologica di quello che deve essere ogni regola: possibilità, capacità di aprire allo Spirito, anche aldilà della mia perfetta osservanza; supposto che ci siano in monastero monaci che siano perfettamente ligi alla Regola, non dovrebbero mai sentirsi soddisfatti. Volesse Dio che fosse così!

"Minima inchoationis Regula, quella che io ho scritto è solo un piccolo inizio", perché la grande regola è che il monaco sia aperto allo Spirito santo, se no non è monaco; questo non significa, ripetiamo, darsi all'indisciplina, tutt'altro, bensì sottolineare la funzionalità della disciplina, che non finisce in sé stessa, ma porta all'apertura allo Spirito santo; dovesse trattarsi pure della richiesta che io rompa l'immagine che mi sono fatto del monaco perfetto, così come san Benedetto è stato chiamato a passar sopra la sua stessa creatura.

E sarà sempre così il cammino che lo Spirito santo fa fare a san Benedetto.

Qui comincia dunque la vera vita del monaco: retta lettura di segni dei tempi, dei segni comunitari, dei segni del superiore, dei segni che vengono dai fratelli attraverso cui parla lo Spirito. Guai se io mi dessi una forma di vita, disciplinare o mentale, per cui mi dicessi: « A me il superiore non è niente da dire; a me fratello non ha niente da dare...». Guai se mi strutturo in modo da chiudermi all'abbate e ai fratelli. Gli altri non hanno niente da dirmi, perché io vado mattutino, faccio la meditazione, sono inappuntabile in coro... Eppure tante volte la nostra spiritualità può ridursi a questo... Il monaco non è un fossilizzato, uno standardizzato, uno stilizzato, anche se dobbiamo stare molto ben composti, ma è qualcuno che è sempre aperto allo Spirito, altrimenti non è vero figlio di san Benedetto.

Parte dunque il santo per il nuovo e porta con sé uomini nuovi; porta con sé ancora alla RM, ma non più come da Vicovaro a Subiaco, bensì con un rapporto nuovo, come un semplice testo di riferimento. Sappiamo infatti che il fondo della RB è la RM, ma se la leggiamo bene attraverso il De Vogüé, ne vediamo la sovrana libertà: senza distacchi esteriori clamorosi, qua e là una parola, un accento, ma con che libertà! La RM è un elemento di fondo su cui cammina, ma che non l’incapsula: nonostante sia rimasto nella tradizione, l’ha vissuta con l'anima sua propria e la nuovo osservanza tipica di san Benedetto.

A Montecassino la vita è ora esclusivamente benedettina; anche se a Subiaco, nella RM, egli aveva già introdotto qualcosa di suo, qui è ora certamente luogo della sua Regola; e se c'è qualche contrasto tra la Regula Benedicti e la vita di Subiaco, non c'è più nessun contrasto tra la Regola di san Benedetto e la vita di Montecassino, come appare chiaro dal Libro degli Dialoghi.

Ci sono invece moltissimi contrasti tra la RM e la vita di Montecassino, segno evidente che san Benedetto a Montecassino ha fatto una cosa nuova: la sua realizzazione, per cui aveva avuto la grazia. Il fatto che le RM sia stata riconosciuta come la fonte della RB permette appunto di cogliere meglio ciò che è proprio di san Benedetto, il suo carisma, le caratteristiche della sua spiritualità. Ormai nel deciso passaggio all'ideale cenobitico - cioè di una vita costituita da Padre e da figli - le correzioni, gli adattamenti, le omissioni, le aggiunte dimostrano precisamente la sua spiritualità ormai matura: spiritualità ferma, ordinata, chiara, piena di umanità e soprattutto piena di amore.

 

A Montecassino la spiritualità di san Benedetto raggiunge la vetta, diventa l'eredità da trasmettere. E perché sia un hereditas Dei, ecco il segno che san Benedetto non faceva una cosa sua ma una cosa di Dio: Dio fa che sia unicamente imbevuta di Lui solo, senza più nulla dell'uomo, senza nemmeno quello che l'uomo aveva creato con Dio. Dobbiamo rileggere nel capitolo 17 del 2° Libro dei Dialoghi, la visione che san Benedetto ha della prima distruzione di Montecassino.

Là egli ormai, con l'aiuto di Dio, Deo opitulante, aveva costruito l'opera per cui era nato, per cui era stato chiamato; eppure il Signore gli domanda il distacco anche da quello. Noi capiamo che il Signore ci domanda il distacco dalle cose nostre, fatte da noi, o in cui siamo stati inseriti per natura: padre, madre, famiglia, amicizie, progetti; ci fa piangere, ci fa sanguinare, però alla fine, se non siamo veramente ottusi, capiamo che il Signore ha il diritto di domandarci tutto questo e che in fondo è un bene... Ma quando il Signore arriva domandarci quello che abbiamo costruito con Lui o che Lui stesso ha creato dentro di noi!... Eppure Dio arriva a questo, perché l'opera sia completamente sua, quando cioè ci dà il privilegio di essere chiamati a fare una cosa che sia solo sua: è un privilegio perché solo quando una cosa solamente di Dio può sfidare i tempi. Ed è allora che l'opera di Benedetto ha avuto quel germe di perennità per cui dopo quindici secoli è ancora viva. Non c'era più nulla dell'uomo: c'era solo un fatto divino.

In quella visione il Signore domanda a san Benedetto di disporsi a sacrificare anche quello che lui aveva creato con Dio stesso, tanto che il Santo ci piange: lo trovano in pianto. E anche se è vero - è preziosissimo il 2° Libro dei Dialoghi - che san Benedetto pregava sempre con lacrime, Teoprobo che guardava, rileva che quello era un pianto straordinario, Benedetto non finiva più di piangere; però alla fine ha accettato. Dio domanda il distacco più completo in chi sceglie per compiere l'opera sua, il distacco anche da quest'opera perché nemmeno questa si interponga fra Sé e lui: quando Dio ci vuole, ci vuole veramente, non dobbiamo andare a Lui con nessun bagaglio, con nessun punto d'appoggio, neanche il monastero che tu avessi costruito; se è costruito, è costruito per Lui.

Il dono di sé a Dio deve essere assolutamente puro. E questo che troviamo nella vita di san Benedetto lo troviamo nella storia della salvezza: Dio ha cominciato così con Abramo, e san Gregorio molto opportunamente a quel punto richiama l'esempio di Abramo; è su questi esempi che deve essere fondata la nostra spiritualità monastica benedettina. Aldilà quindi, non passando sopra alla disciplina regularis, ma aldilà, ora Dio è veramente il Solo, è l'Unico, monos; finalmente il monaco comincia diventare monaco. Certo, san Benedetto era un santo anche prima, ma non era ancora perfettamente monaco, non realizzava in pieno il suo titolo di monaco; adesso è monos con il Monos, solo con il Solo, perché Dio è il primo Monos. E dice ancora opportunamente san Gregorio in questo in altri punti: Qui adhæret Deo unus Spiritus est, citando san Paolo. Chi aderisce a Dio diventa un solo Spirito con Lui; e aderire a Dio significa che non ci sia niente in mezzo fra me e Lui.  Ringraziamo dunque il Signore il giorno in cui passa con la spada fra le nostre due mani perché siano veramente giunte; poiché se nelle nostre mani, per quanto strette siano, c'è dentro un po' di alito nostro, non siamo veramente monaci: ce lo dice la vita di san Benedetto. 

Ora egli è giunto alla vita unitiva: Monachus gratia et nomine; in lui si è realizzato in pieno il titolo, perché si è realizzata in pieno la grazia di essere monaco; c'è l'unità mistica. Anche chiusi in monastero, noi possiamo essere molto appesantiti da quel niente che ci sembra niente, ma che invece ci appesantisce tanto. Bisogna che sia proprio un intervento del Signore a renderci veramente soli, ed è questa l'opera dello Spirito Santo. Noi facciamo spesso i dilettanti, anche con tutta la buona volontà; ed è solo un intervento suo - che naturalmente ci mette alla prova e ci lascia la possibilità di dire « no » - a cui se si dice « sì », si arriva ad essere veramente monaci.

 

Ora san Benedetto ha sul mondo lo stesso sguardo luminoso e ampio di Dio. Va avanti come un trattato di sublime spiritualità il 2° Libro dei Dialoghi! Arrivato a rinunciare a tutto, a spogliarsi della sua stessa creatura, ora san Benedetto diventa una sola cosa con Dio, al punto di vedere tutto il cosmo - famosa la visione del cap. XXXV - in un solo sguardo, come sta sotto lo sguardo di Dio. Può abbracciare tutto dall'alto; non è più sperduto nello spazio del mondo che lo supera, tutt’altro! Se - come rileva molto bene san Gregorio - « uno che è unito a Dio ha lo Spirito di Dio », arrivando a questa unione con Dio si arriva alla stessa capacità di visione che ha Dio e quindi non è niente di straordinario se egli può vedere in un solo raggio tutto il cosmo, non soltanto tutto il mondo, come lo vede Dio.

 

Questa grazia ha lasciato le sue tracce specialmente a partire dalla seconda parte del cap. 64 della Regola, dove parla dell’abbate come di un uomo che deve essere pieno di apertura, di bontà, di misericordia, qui semper superexaltet misericordia judicio: abbia come regola di giudizio non il giudizio male misericordia; ecco il segno, una traccia evidente della sua identificazione con Dio, perché Dio è così.

Il giudizio di Dio sulle cose, lo sguardo di Dio sulle cose, è misericordia; per questo san Benedetto ha potuto dire la magnifica frase citata, grazie all'esperienza, all'aver vissuto lo spogliamento di sé; talmente spogliato, d'essersi potuto assorbire completamente in Dio, da avere lo stesso sensus Dei.

 

Non si finirebbe mai di riflettervi sopra; dovremmo rileggere in questa chiave gli ultimi capitoli della Regola, che sono nettamente di san Benedetto.

La vera Regola di san Benedetto è dal cap. 67 in poi. La RM è scomparsa e si affacciano semmai san Basilio e sant'Agostino. Ci troviamo di fronte a una spiritualità che ha riscoperto la gloria di Dio, per cui conosce e ama l'uomo perché lo vede nella gloria di Dio. Poter vedere l'uomo con la stessa bontà con cui lo vede Dio! Se questo è l’iter di san Benedetto vuol dire che questo deve essere anche il nostro iter, come è tracciato nella Regola.

Noi corriamo il rischio di non cogliere nella Regola questo itinerario spirituale, con la nostra tendenza a fermarci semplicemente sui fatti disciplinari, mentre è proprio nel 2° Libro dei Dialoghi che noi capiamo l'anima con cui la Regola dovrebbe essere letta e vissuta. San Benedetto negli ultimi capitoli difatti non parla di sé, parla del monastero e del monaco; e descrive il clima di carità fraterna che deve animare sia il monastero che il monaco. E questo clima è il riflesso della sua spiritualità, il suo vero testamento spirituale di Padre. Sigillo, impronta definitiva a questa realtà è data dal racconto della sua morte; c’è nei Dialoghi un insieme di capitoli che si può chiamare un preludio alla sua morte ed è un preludio d'amore, come il capitolo che narra la sua morte è la consumazione dell'amore. Dal capitolo 33 al capitolo 36 ci avviciniamo alla fine di san Benedetto. Il capitolo 33 - l'ultimo colloquio con santa Scolastica - è il trionfo dell'amore: plus potuti quia plus amavit.

Potrebbe essere la norma della Regola: più sarà benedettino, più conserverà la Regola, quello che ama di più, non quello che è più regolare. Non che siamo dispensati dall'essere regolari, ma questo è appena il minimo. Nel capitolo 34 c'è la morte di santa Scolastica: è l'avvio dell'amore. Casta columba, portata in Paradiso più dall’amore che dall’osservanza di una disciplina considerata come un dogma. Nel capitolo 35 c'è il mondo visto in un solo raggio, finché nel capitolo 36 troviamo l'ultimo « miracolo » di san Benedetto: vediamo in quale punto lo mette san Gregorio, come l'espressione più alta del suo amore. Dice infatti: ha compiuto tanti miracoli, ma i miracolo più grande è la sua Regola: però dobbiamo metterla in quel clima di amore. Infine, dice il capitolo 37, si fece portare nell'oratorio. Ecco: non c'è più monastero, il monastero è riassunto nell'oratorio, davanti a Dio: Dio è il mio monastero (se il monastero non porta all'oratorio - non soltanto per andare al tuo posto in coro, ma come ambito spirituale, come espressione di vita - ha fallito il suo scopo). E là si fortificò con il Corpo e con il sangue del Signore, diventando una sola cosa con Lui. Non sono buttati lì a caso questi particolari: è la quintessenza, la sintesi della vita di san Benedetto. Sostenuto dalle braccia dei fratelli, morì in piedi, inter verba orationis: le sue parole alla fine erano tutt’uno con l’orazione, un colloquio con Dio.

 

Per concludere, vorremmo sottolineare come la caratteristica della Regola di san Benedetto sia veramente questo sbocco di amore: arrivare ad essere pieni di amore di Dio, amore che non può poi non riversarsi sui fratelli e su tutto. Un monaco o una monaca arcigna, chiusa, tesa, dura è un fallimento. Essere inappuntabili nell'osservanza non significa niente, se non fiorisce l'amore. A differenza della contemplazione proposta da Cassiano, da Evagrio Pontico e dalla tradizione egiziana, a differenza anche dalla RM tutta fondata sulla disciplina, san Benedetto, pur rimanendo nella tradizione, ha il suo discorso, la sua grazia, il suo carisma; e nonostante la sua dipendenza dal passato - vediamo la nostalgia che ha per i Padri del deserto - egli ha il suo luogo. C'era un grande pericolo nella linea di Cassiano, discorrendo troppo di contemplazione, di cadere nell'astratto, come poi è avvenuto. San Benedetto vuole riportare nel monastero il genuino miracolo del Signore: la Chiesa primitiva, la carità fra Cristo e gli apostoli, fra gli apostoli e la prima generazione cristiana, in cui la contemplazione non è esclusa, ma non è la meta ultima che può deviare in astrazione. E soprattutto non è il disciplinarismo della RM. Pur essendo in mezzo queste tradizioni così solenni dalle quali era veramente difficile scostarsi, Benedetto ha saputo dare la sua impronta: portare in monaco e alla pienezza dell’amore di Dio.

*  *  *


[1]   Cfr.  Ora et Labora , nn. 1 ,2 ,4/1980; 1 e 2/1981.

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