Testi per la vita monastica                                          Monachesimo - sezione II


scheda bio-bibliografica

Tommaso Federici  

Storia del monachesimo 

 

Il prof. T.Federici, Docente di teologia biblica all'Urbaniana di Roma, 

saggista ed articolista de L'Osservatore Romano, 

ha avuto un importante ruolo redazionale nella Enciclopedia Cattolica.

 

« Sembra qui opportuno spendere un'altra parola per presentare  l'autore stesso, da parte sua sempre schivo, e d'altronde noto agli ambienti teologici ed ecclesiastici a Roma, in Italia ed all'estero. Da lunghi anni frequentatore attento ed ammirato dal nostro Rito bizantino greco, entrato con esso in piena sintonia, Tommaso Federici si trova anche in ormai annosa consuetudine di affetto e di viva collaborazione con le nostre due Eparchie di Piana degli Albanesi e di Lungro. Egli è laico, romano, Ordinario di Teologia biblica nella Facoltà di una Pontificia Università romana, e specialista dei Padri, delle Liturgie e della sacramentarla orientali. Ha all'attivo un'incontrollabile copia di articoli in Riviste italiane ed estere. E libri numerosi, ponderosi e sempre esauriti. E' consultore di diversi organi della Sede Romana. Da molti anni collabora anche con Oriente Cristiano.

Ed è apprezzato scrittore di cultura teologica dell'Osservatore Romano, con specifico riferimento all'Oriente cristiano. La sua specialità è la "teologia della Tradizione", ossia quella, così rara, che coniuga la Scrittura Santa, i Padri e gli Spirituali, e la Liturgia, tenuto conto delle acquisizioni moderne dove utile, e con aperta preferenza per le realtà orientali ».

 

dalla prefazione del Vescovo Sotir Ferrara

 all'opera di T.Federici: Resuscitò.


L'articolo che presentiamo,

estratto da L'Osservatore Romano del 24 febbraio 1993,

è una magistrale sintesi di Storia del monachesimo


a cura dei monaci della Abbazia Nostra Signora della Trinità - Morfasso (PC) Italia

 

 

 

Storia del monachesimo

 

Dalla Persia all'Italia e alla Gallia 

un'estesa mappa della penitenza

 

Prof. Tommaso Federici

Docente di teologia biblica all'Urbaniana di Roma

 

 

La Risurrezione del Signore, celebrata tutte le Domeniche - e così tutte le feste e ferie -, e con particolare solennità ed intensità una volta l'anno, resta il centro dell'esistenza cristiana redenta, nucleo essenziale della fede nel Signore crocifisso ma risuscitato dal Padre con l'operazione indicibile dello Spirito Santo.

Il N.T. conosceva solo questa celebrazione all'«Ottavo Giorno», il «Giorno signoriale», «del Signore Risorto». Quando nel 2° secolo un nucleo di comunità cristiane dell'Asia minore, che dicevano di seguire la tradizione giovannea, cominciarono a celebrare la Risurrezione anche una volta l'anno, distinguendo il Mistero di Cristo tra i due episodi del venerdì santo e della Domenica di Gloria, quasi connaturalmente si vennero a formare alcuni «tempi» privilegiati: la settimana di preparazione, detta «santa» in Occidente, «degli Osanna» in Oriente, la settimana della gioia dopo la Risurrezione, le settimane in preparazione più remota, detta «quaresima» per il numero simbolico dei 40 giorni, le settimane che portano alla Pentecoste. Le «feste», successive, vennero a completare la struttura dell' «anno liturgico», come si conosce definito tra il 4° e il 5° secolo, con centro in Gerusalemme.

Di organizzazione quaresimale si può parlare già nel sec. 3°. Nella Chiesa antica era più complessa, poiché la Quaresima era un tempo di speciale «vocazione» dei fedeli a rileggere la loro vita davanti alla croce ed alla Risurrezione, da una parte; dall'altra, era il periodo finale della preparazione dei catecumeni, che nella Notte santa erano iniziati solennemente al Mistero del Signore. La Risurrezione dunque esige la Quaresima, la richiama e per così dire se la annette, poiché anche nella «penitenza» in fondo si fa anamnesi del Signore morto, risorto, asceso al cielo nello Spirito Santo per la Gloria del Padre. Perciò la Costituzione sulla santa liturgia del Concilio Vaticano II [Sacrosanctum Concilium  = SC ] richiama queste realtà e ne fa un rinnovato programma. In SC 109 si ricorda che la Quaresima è tempo di «memoria» più intensa del nostro battesimo, e di unione ai catecumeni che nel mondo si preparano al battesimo; in SC 110 si prescrive che la Quaresima goda del suo duplice e tipico aspetto: interiore e comunitario, spirituale e «materiale», ossia espresso in effetti di opere buone. La penitenza è feconda di opere, non è sterile riflessione su se stessi.

Per la Chiesa antica, il «tempo della penitenza», o della «conversione» del cuore, era con un inizio necessario, ma senza più termine. Il Signore aveva cominciato la sua predicazione messianica così: «il tempo è compiuto (da Dio), il Regno si avvicinò (= sta qui, con Lui e lo Spirito Santo): convertitevi e credete nell'Evangelo!» (Mc 1, 14.15). Era riproposta, con il dono dello Spirito, la predicazione profetica, e quella del Battista. Pietro la mattina della Pentecoste conclude l'annuncio della Risurrezione con il «Convertitevi!» (At 2, 38). E la conclusione della Rivelazione, l'Apocalisse, per 7 volte simboliche richiama le Chiese alla conversione (Ap 2-3).

Ecco la base, presa alla lettera, del singolare fenomeno della Chiesa antica che fu il monachesimo.  Esso corrisponde alla singolare ed improvvisa conversione al cristianesimo delle masse del mondo antico, verso il 4° secolo in poi. Gli storici del monachesimo preciseranno che forme di vita «solitaria», di rigorosa ascesi, di santità nascosta si avevano in fondo anche prima del sec. 40, tra il popolo ed il clero, con vergini consacratesi al Signore, con le vedove considerate la pupilla della Chiesa. Molte case erano quasi monasteri domestici, e splendide opere di carità si accompagnavano a questi stati di vita. 

Tuttavia dal sec. 4° prendere alla lettera la severità evangelica, in tutto il suo rigore di purificazione e di santità, fu propriamente un avvenimento in crescendo, che si può anche chiamare, con le dovute proporzioni, di massa. L'universo cristiano si scoprì costellato, di uomini e donne che fuggivano il mondo per cercare il Signore e la sua santità. Dalla Persia alla Mesopotamia, dalla Grecia all'Italia e alla Gallia e alla lontana Ispania, la carta geografica del monachesimo antico era impressionante. Se alcuni si facevano «monaci» o «solitari» dentro le stesse città, la maggior parte popolavano i luoghi deserti più impervi ed inaccessibili: montagne. caverne, foreste, steppe, deserti di sabbia. Dati storici più recenti rendono ancor più impressionante il fenomeno: la Mesopotamia e la Siria, forse prima di ogni altra regione ecclesiastica, e l'Egitto sono le prime dove fioriva la vita di penitenza; in breve, la Palestina, l'Asia minore, più tardi le lontane Armenia e Georgia ed Etiopia, videro le colonie di solitari moltiplicarsi a dismisura; gli eremi dove vivevano isolati gli anacoreti, anche se talvolta in una zona delimitata, erano migliaia; molte migliaia furono anche i monasteri. Si calcola che l'Egitto del sec. 5° avesse quasi cinquecentomila monaci. Una zona eremitica poteva essere popolata da decine di solitari; un monastero poteva essere abitato da centinaia di monaci, e diversi monasteri vicini formano una vera città monastica.

L'eremitismo antico, in specie siriaco, era il più severo. Leggendo i resoconti storici, anche al di là delle esagerazioni ed abbellimenti che servivano per edificare il lettore, la realtà era tale che oggi si direbbe disumana: digiuni, penitenze spirituali e corporali, isolamenti finali, ma insieme preghiera continua, lavoro, contemplazione, formavano un compatto  universo spirituale. Se si parla di «fuga dal mondo», di «disprezzo del mondo», occorre superare certa letteratura pia dei secoli recenti, e rifarsi al reale di allora. Il monaco orientale aveva preso alla lettera, come si accennò, non solo l'Evangelo ma tutta la Scrittura: Elia, Eliseo, Geremia, ma anche Mosè e l'«esodo». La teologia è che occorre «entrare» nel deserto, e percorrerlo per intero, viverlo per intero, al fine di entrare nella Patria sospirata. Si può fare «il deserto», il «santuario», anche dove si vive. Ma dove la civiltà profana impedisce la santità della vita – S. Agostino in un'omelia celebre non dirà che nell'impero cristiano occorreva camminare con lo sguardo a terra per non vedere la bruttura sul volto dei fratelli? –, il recupero è la momentanea separazione. Come il Battista. Come Cristo prima del suo ingresso alla Vita pubblica, vero vittorioso rientro salvifico.

Di fatto, gli eremiti ed i monaci, fenomeno questo poco notato, erano attentissimi alla Vita della Chiesa, ed obbedienti al Vescovo della Chiesa locale. La loro vita era dedicata al recupero della propria santità, ed insieme alla salvezza dei fratelli: il tesoro della preghiera e delle grazie non è mai egoistico. Stava qui sempre un grandioso istinto missionario e pastorale. Chiamati dai Vescovi, i solitari potevano predicare, convertire. Il grandissimo S. Simeone Stilita, che viveva su una colonna alta 19 metri, da cui predicava, convertiva e santificava le folle che a lui accorrevano, richiesto dai Vescovi si recò a Costantinopoli dalla Siria, a piedi, e fece la sua ambasciata all'imperatore discolo ottenendo clemenza, poi tornò e risalì sulla colonna senza la minima esitazione. Quando fu necessario, ossia quando la folla degli eremiti si poneva alla scuola di un grande santo, fu fondata la «vita comune» o «cenobitica», in un monastero, spesso diverse case raggruppate intorno ad una chiesa. Ma in genere i monaci correvano il sabato e la domenica alla cattedrale più vicina, per partecipare alla celebrazione dei Misteri divini con l'unico popolo di Dio, dove era possibile.

Quando fu necessaria la missione della Chiesa alle nazioni pagane, i Vescovi in Oriente – così, ad esempio, all'inizio del 4° per l'Etiopia –, i Papi in Occidente facevano puntuale appello ai monaci. Le grandi missioni sono opera monastica. Per l'Oriente basterà qui richiamare il monachesimo sirio-orientale, che dai monasteri dell'attuale Iraq traversava l'Asia, convenendo milioni di fedeli; nel sec. 7° a Pechino era stabilito un Arcivescovo metropolita, con ben 17 Vescovi suffraganei; solo Tamerlano nel sec. 14° poteva sterminare l'imponente fioritura cristiana d'Asia: Cina, Mongolia, India, Sumatra, Persia.

Per l'Occidente gli esempi di S. Agostino per gli Angli e S. Bonifacio per i Germani restano esemplari. Non meno, qualche secolo dopo, i due fratelli Cirillo e Metodio, monaci di cui uno Vescovo, faranno grandiose missioni tra gli Slavi. Il monachesimo bizantino evangelizzerà poi l'Ucraina, e questa la Russia. L'«implantatio Ecclesiae» fatta dai monaci era tipica, profonda, incrollabile, accentrata intorno alla liturgia, culmine e fonte della vita della Chiesa (cfr SC 10), dunque anche garante della perennità dell'evangelizzazione della Chiesa stessa.

Il monachesimo fu dunque la linfa vitale, irrinunciabile, per la Chiesa sia come popolo, sia come istituzione, che i monaci sostennero attraverso le lotte numerose, come quelle  intorno ad Efeso e Calcedonia,  come quella dell'iconoclasmo,  ed oltre. Il monaco, uomo di Dio, era esempio di vita. A lui si ricorreva per la cura spirituale, dopo di che ci si recava a confessare i peccati al sacerdote, essendo per lo più il monaco un semplice laico consacrato. 

Come si accennò, alcune forme di vita eremitica e monastica, giudicate con la particolare fragilità della coscienza moderna, possono essere considerate orride, specie in Oriente, e specie in Siria e Mesopotamia. Vivere nudi, stare sempre all'aria aperta, essere murati vivi, stare su un albero o su una colonna, portare un masso sulle spalle tutto il giorno, legarsi con catene, portare un il cilicio di ferro, stringersi la testa con un cerchio di ferro, non dormire mai, mangiare solo pane e acqua, non parlare mai... Però le vite autentiche degli uomini di Dio mostrano invariabilmente quale debba essere la vera conversione del cuore, l'autentica penitenza: la dolcezza e la carità verso tutti, uomini, animali e creature di Dio, e la gioia irraggiante attraverso la macerazione. Si può dire che si tratta di «opere» esterne; tale giudizio fu emesso dalla storiografia ideologica del 1800, che era positivista e liberale. Il che ha portato a fenomeni curiosi, come in Mc 9,29, dove i testi «critici» espungono il «digiuno», proprio quando il Signore dice che certi demòni impuri possono essere espulsi solo «con preghiera e digiuno», come precisamente Egli praticava, e che del resto ha un'attestazione di ferro, perfino con un papiro del sec. 3°, tutti i grandi onciali (esclusi certo gli autorevoli  Alessandrino e Vaticano dei sec. 4°-5°), decine di minuscoli delle varie «famiglie», la Vetus Latina, la Vulgata, le versioni sira,  copta, gotica, georgiana, Taziano (sec. 2°-3°), i Padri. 

La santità del monachesimo era tutto questo, ed altro. Era santità di risurrezione e di quaresima, di croce e di trasfigurazione, di ascolto e di contemplazione, di battesimo e di pentecoste. Ossia delle realtà «normali» della vita cristiana autentica. I1 monaco sentiva di vivere nello Spirito Santo per Cristo una vita che considerava una grazia, «normale». Per cui lavorava, coltivava la terra, donava i prodotti ai poveri, accoglieva i penitenti, curava i malati, fortificava i deboli, reprimeva arditamente i prepotenti del mondo. Se i monaci e le monache fuggivano l'altro sesso, in realtà poi accoglievano, consigliavano, indirizzavano, benedicevano l'alto sesso. Un capitolo a parte è la conversione di peccatrici, fattesi ardenti di penitenza e di santità, (come adesso si può leggere nel bellissimo volume di Benedicta Ward, Donne del deserto, Edizioni Qiqajon). 

Insomma, Quaresima permanente, il monachesimo, perché teso alla Risurrezione eterna. Era un monolite, rigido ed insensibile ai tempi? Proprio il contrario. Anzi, oggi si ha dovizia di studi storici, dove è possibile seguire la necessaria evoluzione del fenomeno eremitico e monastico. Ad esempio, il recente e bene informato e splendidamente esposto studio di grande mole, che è Ivan Gobry, Storia del monachesimo, Città Nuova, Roma, con tabelle e carte geografiche (*).

In che consiste dunque l'evoluzione del monachesimo? Per alcuni versi, precisamente nell'adattamento alle necessità della  Chiesa e dei suoi tempi; per altri, un'identità mai perduta, se non nella crisi fatale della rivoluzione francese e di Napoleone, in Occidente, e nelle perenni persecuzioni musulmane in Oriente. L'identità si può precisare nella fedeltà alla Chiesa, in concreto ai  Vescovi, come riaffermava il Concilio di Calcedonia come è assunto anche nella Regola di S. Benedetto. Il monaco sa di non avere una spiritualità «monastica», ma quella del popolo di Dio, portata all'ideale, ed eventualmente all'eroismo. Quando serve, i monaci partono all'azione. Oltre l'evangelizzazione, le opere sociali. Tra queste non primeggia la cultura, come si legge negli stanchi libri scolastici, ossia il salvataggio della cultura antica, greca e romana, ma allora anche siriaca e copta ed armena; questo  è un fatto, però non è il proprio dei monaci, anche le scuole «capitolari», dei Vescovi, lo facevano. Il monaco è grande lavoratore, ed inventore spesso geniale. Dopo le distruzioni barbariche, risorgono scuole ed abitati; ponti e strade; ospizi per i poveri, ed ospedali; le «diaconie» per servire i poveri; bonifiche per dare terreni ai contadini; acquedotti per i servizi più essenziali;  rimboschimento per restaurare la creazione; allevamento di animali per il lavoro dei campi e per il nutrimento; e scambi di prodotti della terra e dell'industria. È un immensa «liturgia», nel suo significato etimologico vero di «opera per il popolo» di Dio in cui Dio è amato e adorato e glorificato. Infatti per il N. T. «liturgia» assume tutto il suo significato nelle tre direzioni convergenti di annuncio dell'Evangelo (cfr Rom 15,16; testo capitale), di opere della carità (2 Cor 8-9, testo capitale), di culto a Dio, dove l'opera «per» il popolo degnamente, dunque all'ultimo perché in crescendo, diventa anche opera «del» popolo resa al suo Signore.

Ecco perché beneficamente per tutto l'evo antico e per quello che chiamiamo «medio», l'eremo, il monastero era il punto d'incontro degli uomini, di quelli che Dio possedevano con quelli che Dio cercavano; e nodo di cultura e di civiltà grandiose. Non per nulla in Oriente la musica era un fatto monastico, ed in Occidente un monaco,  abbastanza misterioso come figura, «inventò» miracolosamente  la notazione musicale a partire dalla santa liturgia innica. 

Oggi è in espansione il desiderio di conoscere il  monachesimo, in specie orientale, con preferenza per quello russo, che è abbastanza recente. Si moltiplicano ottime pubblicazioni di testi anche sul monachesimo antico, ad esempio i «Detti dei Padri del deserto». Si può così misurare la grandezza antica, e le miserie secolari, anche attuali. È un fenomeno visibile, che l'uomo moderno, il credente, è attirato dalla spiritualità antica, ma non sempre è capace di considerare che essa non è parte del passato, bensì è parte integrante e preziosa della spiritualità nostra, senza aggettivi. Quando parliamo di grandi figure, come S. Efrem Siro ed Afraate il Persiano, Basilio, Gregorio Nisseno suo fratello, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, Agostino, Gregorio Magno, lo stesso Girolamo, e giù fino a S.Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno, e tanti Vescovi e spirituali come Isacco il Siro, dobbiamo prendere coscienza: che erano monaci, che S.Benedetto si rifà «ai Padri», che molti Papi furono monaci.

E possiamo anche avere alcuni dati per valutare la crisi. Oggi cautamente potremmo accostare nella crisi due crisi, quella delle istituzioni monastiche, e della famiglia. Si chiama anche crisi d'identità. Identità di due santuari indispensabili alla vita dell'intera Chiesa, focolai fecondi, un tempo, di vocazioni di santità e di vita cristiana intensa.

La Chiesa si è sempre preoccupata delle vocazioni monastiche e contemplative. Diversi luminosi documenti pontifici ne fanno fede. La superficialità moderna, anche cristiana, considera il monachesimo uno stato di vita superato ed abbastanza inutile: «pregare di meno e lavorare di più». È rotto l'equilibrio mirabile non solo della «regola» monastica che fa pregare e lavorare, ma della stessa vita cristiana; il lavoro diventa  ossessione, e fine a se stesso. È  la mentalità naturalistica e pelagiana che affligge tutta l'età moderna che si avvia a malinconici tramonti postmoderni.

Si ammira tanto,  ma da lontano,  il Monte Athos,  bensì per un certo folclore.   Lì si prega e si lavora, magari senza leggere il giornale e il settimanale. Tentativi «laici» di gruppi di vita comune, se non hanno il cemento della preghiera e della santificazione, hanno vita breve.

La stabilità monastica, perfino vissuta in famiglia, ricostituisce la vita. Ma la lezione immane del monachesimo, quaresimale perché risurrezionale, può essere valido elemento di riconsiderazione per il tempo di grazia che ci attende.


da L'OSSERVATORE ROMANO  mercoledì 24 febbraio 1993


     (*) Ivan Gobry, Storia del monachesimo

1. Le origini orientali del monachesimo e lo sviluppo in Occidente (secoli III-VI); 

2. Espansione del monachesimo occidentale: da San Colombano a San Bonifacio (sec.VII-VIII) 

3. Riforme monastiche e società d'Occidente (secoli VIII-XI)

4. Citeaux e Clairvaux (secolo XII)

5. Ordini Monastici e Canonici Regolari nel XII secolo

     Città Nuova, Roma 1991-2000, con tabelle e carte geografiche.

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