| Testi per gli amici scheda bio-bibliografica Romano
  GUARDINI lettera sulla Libertà ROMANO GUARDINI (1885-1968) è stato una delle figure
  più significative nella storia culturale europea del sec. XX.   Presso  Sito italiano su Romano Guardini: http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/guardini.htm da: Lettere
  sulla autoformazione,  Morcelliana, BS 
  1956, lettera VII, pp 102-124 Tutti i diritti sono riservati per il testo: © all'Autore e all'Editore; per la traduzione: © al traduttore | 
 
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 Romano Guardini 
 
 settima lettera LA
  LIBERTÀ 
 
 
 
 
 
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| La parola «libero» è diventata
  per molti qualche cosa di nebuloso in cui non scorgono nulla di distinto. Ma proprio
  su questo punto è importante veder chiaro: metteremo dunque da parte ciò che
  è soltanto espressione verbale o sentimento. Bisogna guardare attentamente,
  distinguere con chiarezza. Non bisogna girare attorno ai problemi: con tale
  sistema non si approda a nulla in questa questione. Piuttosto vogliamo
  cercare una risposta soddisfacente alla domanda: chi è libero? Quando
  qualcuno ha il diritto di dirsi libero? Si tratta di schizzare il ritratto
  dell'uomo veramente libero. In questa nostra esposizione scarseggeranno i
  motivi d'effetto; ma non ce ne lasceremo turbare. Ciò che è molto « caricato
  » non è sempre schietto; cela dietro di sé una gran parte di inganno. Noi
  vogliamo fare un buon lavoro, un lavoro d'artigianato: schietto e duraturo.  Cominciamo dagli elementi più
  prossimi: si chiamerà libero un uomo che può fare ciò che vuole; se ha la
  libertà esteriore di prendere decisioni, di muoversi. Accade a qualcuno che
  superiori e congiunti gli facciano prescrizioni su ogni cosa. Sotto questo
  punto di vista naturalmente egli non è libero. Vuol fare un viaggio e non
  può, gli piacerebbe far parte di un gruppo ma gli è proibito; si occuperebbe
  volentieri di un lavoro nel modo che ritiene giusto e deve farlo a modo degli
  altri; si sente inclinato per una data professione, ma non può
  abbracciarla... tutto questo è mancanza di libertà e può pesare molto.  Ancor più pesante diventa la
  mancanza di libertà se quelli che ci stanno intorno hanno opinioni e principi
  diversi dai nostri. Questo può accadere a ciascuno e ovunque. Non è capito,
  lo si respinge, gli si vuole imporre un'opinione, ciò che gli sta a cuore non
  è preso sul serio, ciò a cui egli mira viene messo in ridicolo, si cerca di
  costringerlo a una compagnia cui egli ripugna,  gli si vogliono imporre modi, piaceri,
  vestiti, che egli non ama... E chi lo opprime così può essere la società, o
  l'ambiente di lavoro, la famiglia o il collegio o altro ancora. Ciò può
  trasformarsi in una vera e propria tirannide; e proprio le persone che
  pretendono per sé ogni libertà sono spesso, di fronte agli altri, della
  massima indelicatezza. Se poi uno è di natura arrendevole o si intimidisce
  facilmente, può arrivare al punto di perdere totalmente la propria
  indipendenza. La critica permanente gli toglie la fiducia in sé stesso, non
  pensa più colla sua testa ma con quella altrui. Gli torna gradito, trova
  bello e brutto, giusto e ingiusto, nobile e disprezzabile, non più ciò che il
  suo cuore gli dice esser tale, ma ciò che gli altri lo costringono ad
  accettare. Finché finisce per perdere non solo la libertà esteriore ma anche
  quella interna.  Tale schiavitù è molto diffusa.
  Alcuni sono immersi in essa più profondamente, altri meno. Tuttavia tutti
  abbiamo a che fare con essa, perché ciascuno si trova legato in relazioni che
  non può cambiare. Sta in una famiglia e deve prendere i congiunti così come
  sono; nella scuola egli non può scegliere i compagni di classe, il maestro,
  le istituzioni, ma deve accordarsi con quelle già esistenti; egli sta nella
  professione, in ufficio, nel laboratorio, in determinati rapporti coi
  compagni di lavoro, rapporti che non può spezzare. Così ciascuno, in
  qualsiasi maniera, sente la pressione della schiavitù esterna. Ma quando
  possiamo dire che uno è completamente libero? Solo nel caso che egli possa
  andare e venire come vuole, lavorare a ciò che ritiene opportuno, indirizzare
  la sua vita come gli pare, se è circondato da persone che rispettano le sue
  vedute... in una parola se è signore delle sue decisioni e dei suoi
  movimenti. Questa è libertà e vale la pena di lottare per r'aggiungerla. Ci
  sono, sì, delle situazioni nelle quali non c'è nulla da cambiare, ci sono dei
  rapporti in famiglia, a scuola e nella società ai quali ci si deve adattare.
  Ma nella giusta maniera, così che rispetto e amore del prossimo non siano
  conculcati. E si possono anche ottenere grandi risultati. Prima di tutto
  dobbiamo tener fede a noi stessi. Se uno, per esempio, vuole dedicarsi a una
  data professione e trova delle opposizioni, deve prima di tutto cercare di
  far luce in se stesso: che  cosa voglio
  io? perché? Ciò fatto si metterà all'opera con costanza, lasciando cadere la
  parola giusta al momento giusto. Nello stesso tempo si impegnerà nel lavoro e
  a casa perché i genitori vedano che è bene intenzionato; in tutta la sua
  condotta si darà da fare in modo da vincere ogni opposizione in forza delle
  sue buone disposizioni. Qualcuno forse penserà che tutto questo sia «
  diplomazia » e prova di insincerità e che invece si debba dir chiaro ciò che
  si vuole e basta. Non è così! Significa semplicemente avere una volontà
  illuminata dalla ragione, consapevole dei propri scopi, significa impiegare
  il mezzo buono per una causa buona. Con un modo di procedere grossolano, con
  l'intransigenza delle cosiddette « esigenze imprescindibili », attraverso la
  ribellione e il baccano si hanno pochi vantaggi e si fomenta invece la
  discordia e il malcontento. Certo si danno situazioni in cui non ci possono
  essere dubbi: si tratta della mia anima, dell'integrità della mia stessa
  vita, dell'opera e della professione adatta a sostenerla. Allora può rendersi necessaria
  una terza contrapposizione. Ma si deve trattare di una cosa realmente
  importante, e bisogna avere prima provato ogni altro mezzo senza ottenere
  niente. E tale lotta deve essere condotta con cuore puro. Ci è già capitato
  molte volte che qualche cosa ci apparisse enormemente importante eppure non
  era se non un'infatuazione. Qualcuno ha potuto
  credere che tutta la sua vita dipendesse dal raggiungimento di un dato scopo
  e dopo breve tempo la cosa gli era diventata del tutto indifferente. Ha
  creduto di non poter più resistere, di dover uscire ad ogni costo da una data
  situazione e in seguito ha capito che in realtà aveva voluto solo sottrarsi a
  degli incomodi doveri. È vero, ci sono dei casi che esigono una prova di
  forza, però, in generale, possiamo ottenere risultati apprezzabili, se
  persistiamo in un atteggiamento tenace, se ad ogni occasione facciamo un
  nuovo tentativo, non trascurando però di compiere accuratamente il nostro
  dovere e di sforzarci per andare avanti. E arriviamo anche a un punto dove
  non è possibile cambiar niente. Bisogna fare buon viso e sottomettersi
  all'inevitabile. Particolarmente necessaria
  diventa la lotta quando si tratta di difendere le nostre convinzioni dalla
  prepotenza di quelli che ci circondano. 
  Una cosa soprattutto è necessaria: non lasciarsi confondere. Compagni
  di scuola, di officina, di fabbrica, colleghi in affari o nell'impiego
  possono, sì, far pressione su di noi, ma non possono confonderci. Si tratta
  della libertà. Se sentiamo che qualche cosa per noi diventa di giorno in
  giorno più importante, dobbiamo farla oggetto di un serio esame, di una più
  profonda riflessione per capirla meglio, per liberarla da esagerazioni e da
  falsi modi di vedere; ma poi dobbiamo abbracciarla con tutta la nostra anima,
  sempre più  a fondo e sempre più forte.
  Irremovibili! A scuola,  in officina,
  in ufficio, tutti hanno lanciato i loro frizzi, le piccole conventicole in
  cui regna il pettegolezzo si sono associate contro qualcuno. Ma costui ha tenuto
  duro e tutto si è ridotto in niente di fronte al suo cuore tranquillo e alla
  sua decisa volontà. La libertà esterna, quella che
  ora ho descritta,  è preziosa.
  Specialmente se l'abbiamo ottenuta con sforzo personale. Ma essa è solo il
  primo passo nel regno della libertà. Ora porterò esempi di fatti che tu
  stesso puoi già aver osservato: ecco uno che ha la libertà esterna, almeno
  quanto ne potrebbe ragionevolmente desiderare. Egli deve solo seguire una
  certa regola, e nient'altro gli si frappone nel cammino. Può fare e non fare
  ciò che vuole, può vivere coi suoi amici, può occuparsi di ciò che gli piace.
  Forse non deve nemmeno prendersi cura dell'andamento della casa: fa quello che gli pare. Legge ciò che gli capita tra le
  mani, nessuno interferisce nelle sue opinioni: in poche parole, egli è libero
  di fare ciò che vuole. Ora accade, per esempio, che un certo modo di dire sia
  di moda: in classe o nel gruppo tutti lo ripetono, ed egli pure! Viene di
  moda una nuova cravatta, un modo di dare la mano e di salutare: egli non
  considera forse nemmeno l'utilità e la necessità della cosa, ma vuol fare la
  figura di una persona elegante, di un « iniziato », come si suol dire, e fa
  ciò che fanno gli altri. Che tipo di libertà è mai questa? Consideriamo un altro caso: un
  libro diventa di moda! Non faccio nomi, puoi pensare da te a quanti ce ne
  sono in circolazione. Uno lo legge e, invero, qualche cosa in lui si ribella.
  Il libro gli sembra esaltato, non spontaneo, sente risuonare delle parole
  grosse e avverte che dietro di esse non c'è niente di giusto; ha
  l'impressione di qualche cosa di ambiguo, di un'ibrida mescolanza tra cose
  pulite e meno pulite. Ma il libro ha in breve un enorme successo, tutti ne
  parlano, ed egli continua a leggerlo e lo trova bello. Si mette in ridicolo qualcuno.
  Un compagno di scuola, un maestro o chiunque altro. Il nostro uomo sente la
  grossolanità di un tale comportamento. Lo sai bene anche tu del resto: quando
  Guglielmo Raabe vuol indicare che qualcuno ha una straordinaria nobiltà di
  cuore, racconta che quest'uomo non ha mai messo in ridicolo nessuno! Il
  nostro uomo sente dunque la volgarità del gesto, ma gli altri ridono ed egli
  ride con loro.  Nel gruppo qualcuno ha esposta
  la sua opinione, gli altri sono contrari. Egli avverte bene che in quell'opinione
  c'era qualche cosa di vero, ma tutti sono contrari e non osa allontanarsi dal
  loro giudizio, lo segue. E così via. È sempre la stessa cosa: non ci fidiamo
  di dire la nostra opinione in un'adunanza perché temiamo gli occhi degli
  altri: ridiamo di un motto contro il quale si rivolta tutto quello che di
  pulito c'è nel nostro cuore, perché non vogliamo fare la figura degli
  schizzinosi. Ci vergogniamo di una condotta di vita ispirata alla purezza
  perché temiamo che gli altri non ci tengano in nessuna
  considerazione,
  gli altri, quelli che « hanno esperienza »... È libertà questa? Certamente no. In questo modo
  uno può essere libero esteriormente, come un uccello; di dentro è servo.
  Servo di chi? Dell'opinione pubblica. Non vogliamo disprezzarla troppo, ha il
  suo lato buono, in essa si esprime la coscienza di molti, ma quanto c'è
  anche, in essa, di insensato e di basso, quanta grettezza! E’ lo stesso se si
  tratta di opinione pubblica di una città o di una scuola, di una classe o di
  un gruppo. Un uomo pratico della vita pubblica mi parlava una volta di certe
  sue esperienze: finché prendiamo le persone una per una, singolarmente, sono
  tutti tipi normali, ma se ce ne sono cento insieme, il diavolo è in mezzo a
  loro. C'è molto di vero in questa osservazione. Se uno è solo sa che a lui
  spetta la responsabilità dei suoi atti; la sua coscienza è sveglia, ma appena
  si è in molti ciascuno scarica la propria responsabilità sul vicino. Ciascuno
  si lascia trascinare. Con quale risultato? La folla è irresponsabile. E, per
  lo più, il tono non le è dato dai migliori, dalle persone serie e
  disciplinate, ma da coloro che sanno gridare più forte e che sanno dire in
  modo più persuasivo ciò che a tutti fa piacere. Chi vuole essere libero,
  dunque, deve liberarsi dalla « schiavitù dei molti ». Ma si può anche « essere schiavi
  dei pochi ». Talvolta tutta una classe, tutto un gruppo è dominato da una
  piccola fazione oppure anche da un solo individuo. Ciò si verifica spesso
  nella vita, nella professione, nel partito. Quest'uno o questi pochi
  intendono dare espressione a ciò che essi vogliono, essi hanno una forte
  volontà, ma talvolta anche un'anima senza rispetto che non si perita di
  impadronirsi di tutto ciò che capita, e così riescono a dominare. Può darsi
  che un uomo di tal genere tenga un altro in suo assoluto potere. Il suo amico
  parla come lui, si comporta come lui, dà ascolto solo a lui, si regola in
  tutto sul suo esempio. Questa non è amicizia, bensì schiavitù. Anche qui bisogna difenderci. Ci
  manterremo fedeli a un uomo di provato valore senza però perdere la nostra
  indipendenza. Quasi per ogni amicizia viene il momento in cui essa minaccia
  di trasformarsi in schiavitù: ne possono derivare momenti difficili,
  malintesi, lotte, ma bisogna infrangere i legami che si vanno facendo troppo
  serrati. È un modo di provare se l'amico è veramente tale o se non pretende
  che a un assoluto predominio. Anche chi ha tutte le buone intenzioni di
  realizzare una vera amicizia, non capirà al primo momento che cosa significhi
  il fatto che l'altro tenti, almeno in apparenza, di liberarsi. Ma se il suo
  amico gli è veramente caro, subito gli appare chiaro che non lo deve perdere;
  e allora gli lascerà la libertà che egli chiede, e finirà così per
  riconquistarlo. Ma chi ha la smania di dominare non vuole ciò; egli vuole che
  il suo amico gli resti soggetto, si oppone al suo desiderio di libertà, gli
  porta rancore, lo accusa di infedeltà. Nel gruppo avviene spesso qualche cosa
  di simile. Il vero uomo vuole una persona libera per amico, non uno schiavo;
  vuole dirigere uomini liberi e non greggi. Così tanto è contento quanto più
  decisamente gli altri fanno valere il loro proprio essere. Non dimentichiamoci che si può
  essere schiavi anche delle cose, non solo degli uomini. Una ghiottoneria può
  renderei tanto golosi da farci dimenticare tutto il resto. Qualcuno vede un
  oggetto da viaggio, una bicicletta, una barca pieghevole, e le vuole ad ogni
  costo. Un francobollo raro, una pietra preziosa, un libro, un quadro intende
  che sia suo, e non ha pace finché non l'ottiene. Qualsiasi cosa può dunque
  ridurre l'uomo suo schiavo: « casa, campo, servo, ragazza, bue, asino » e
  tutto ciò che può essere proprietà dell'uomo. Tale attaccamento può rendere
  il nostro cuore del tutto inquieto, può rubargli ogni gioia, può anche dare
  una piega cattiva alla nostra condotta. Quando poi qualche cosa è nostra,
  l'attaccamento ad essa può diventare tanto forte da non permetterci di
  separarcene, anche a costo di gravi amarezze per gli altri; anche se,
  privandocene, avremmo potuto dare una grande gioia a qualcuno. Chi ha queste
  disposizioni, diventa schiavo
  della cosa. « Beato l'uomo che non va dietro all'oro », dice  Si tratta di spezzare questa
  schiavitù anche a costo di diventare duri contro sé stessi. Sì, lo dobbiamo,
  altrimenti non potremo procedere oltre. Attenersi al più rigoroso criterio di
  giustizia anche nelle minime cose; dare volentieri e volentieri aiutare gli
  altri. E se si avverte che il vincolo diventa troppo forte, allora non resta
  altro che sacrificare ciò che ci lega tanto profondamente. Chi può fare ciò che vuole è,
  dunque, ancora molto lontano dall'essere libero. Per realizzare tale
  condizione deve essere anche indipendente da uomini e cose; deve tener fede
  alla propria coscienza, al proprio giudizio, a quelle inclinazioni che
  dipendono dalla sua essenza. L'uomo interiore deve dominare in lui l'esterno,
  l'ambiente, i rapporti, le cose, il possesso, e le proprietà.  Ma dobbiamo andare ancora più a
  fondo con le nostre considerazioni. Noi sentiamo che un uomo è indipendente
  nelle sue decisioni, anche internamente, se egli agisce davvero come gli pare
  giusto. Ma talvolta lo invade una tale ira che egli stesso non si riconosce
  più. Allora dice cose di cui più tardi si pente amaramente, fa torto agli
  altri, grida e insulta: è libero costui?... Un altro è vanitoso, parla spesso
  di sé, sa sempre dirigere il discorso sulle cose nelle quali si sente
  versato, tende le orecchie subito se si viene a parlare di lui, in ogni cosa
  sente rimprovero o lusinga, sta sempre all'erta per sapere che cosa gli altri
  pensino di lui. È libero? Per un terzo individuo la passione diventa talvolta
  tanto ardente che egli non si domina più, dice cose che non vorrebbe dire, si
  comporta in modo sconveniente. È libero? Gli esempi si potrebbero
  moltiplicare. In qualcuno sarà dominante la ghiottoneria, in un altro la
  cocciutaggine, in un terzo l'invidia, in un quarto l'orgoglio. Passioni,
  istinti, abitudini sono radicati in costoro e li legano. Possiamo chiamarli
  liberi? All'esterno sì, ma internamente? Un tale uomo forse saprà affermarsi
  nel mondo, ma dentro di sé resta schiavo. Dunque nell'uomo stesso, nel suo
  proprio intimo, si trovano in certo qual modo due uomini; uno tutto
  interiore, e questo è l'uomo propriamente detto, e un secondo, esteriore, che
  è sostenuto dalle passioni e dagli istinti. Passioni ed istinti non sono
  forze cattive, anzi sono preziosi; la passione è una forza, l'istinto è una
  forza. L'uomo irascibile è focoso anche quando si tratta di impegnarsi in una
  grande causa: il passionale ha slancio ed entusiasmo per ciò che è nobile;
  chi è attaccato ai beni conosce il valore delle cose ed è un buon
  amministratore; chi è geloso si tien caro l'amico; e così via. Queste forze
  sono tutte preziose, ma cieche. Esse possono anche distruggere, confondere,
  asservire, se l'uomo interiore che è in noi non riesce a mantenere libera la
  nostra coscienza. Egli deve essere signore delle passioni e dell'istinto,
  deve domarli, ordinarli, renderli utili. Allora agiscono beneficamente, come
  il calore del fuoco, se è bene utilizzato. Libero è soltanto colui nel
  quale l'uomo interiore domina sull'esterno, la coscienza e la libertà del
  cuore sull'istinto e sulla passione. Questa solo è la vera libertà: la
  libertà morale. Essa fa sì che l'uomo viva in armonia con la sua più profonda
  essenza: la coscienza. Essa fa sì che la coscienza, e quindi Dio, dirigano
  ogni nostra azione, essa permette che l'uomo diventi una persona. Quando dunque un uomo è degno di
  essere detto libero? Se è, all'esterno, signore delle sue decisioni. Se si
  rende indipendente dagli influssi degli uomini e delle cose, e se si comporta
  secondo i dettami che gli vengono dal di dentro. Ma prima di tutto, se ciò
  che vi è di più profondo in lui, la coscienza, è signora su tutto il mondo
  delle passioni e degli istinti. La prima specie di libertà vale ben la pena
  che si lotti per conquistarla: serve a preparare la strada, ma resta un fatto
  esteriore. Più importante è il secondo tipo di libertà; essa è già riposta in
  una zona profonda di noi; senza di essa la prima non ha valore. Essa rende
  libero l'uomo in funzione della realizzazione della sua essenza, cosicché
  egli non vive e non si comporta come il suo ambiente, ma come lo esige il suo
  proprio essere: lo fa essere se stesso; fa sì che egli senta, come sta in lui
  di sentire; pensi, come a lui pare evidente; si comporti, come ritiene
  giusto; fa sì che l'uomo in tutto il suo essere esprima l'immagine
  dell'essenza che è in lui riposta. Solo questa seconda libertà dà valore alla
  prima. Ma il terzo tipo di libertà, la più intima, ha un valore veramente
  decisivo, se l'uomo si apre il varco verso la libertà morale; se la sua
  coscienza, voce di Dio in lui, ha il predominio, e non l'istinto, la
  passione, l'egoismo; se egli diventa una persona, se la coscienza è al
  servizio di Dio, e se domina tutto in nome della volontà di Dio; allora
  soltanto l'uomo è veramente libero. Poiché essere libero significa
  appartenere a se stesso, essere uno con se stesso. Ma il mio « io » vero e
  proprio è la coscienza; ad essa deve appartenere tutto, ed io devo diventare
  uno con essa, se ho da esser libero. Solo questa libertà dà a quella esterna
  il suo valore; poiché fa sì che si tratti di libertà umana e non di quella
  che può avere anche un uccello. Essa conferisce anche al secondo tipo di
  libertà il suo valore, perché fa sì che si tratti della libertà degna di un
  figlio di Dio, e non di un puro sfogo di forze naturali. Solo essa rende ogni
  forza e ogni istinto nobile e fruttifero.  Ma dunque l'uomo è, già per
  natura, libero? No, deve diventarlo. Si trova come a un bivio; può andare a
  destra o a sinistra, come vuole. Ma la vera e propria libertà, quella dello
  spirito, deve essere conquistata. E a prezzo di una tenace lotta
  infinitamente ardua. È strano: osservando più da vicino quelli che parlano
  tanto di libertà, si nota spesso che del suo vero essere ne sanno ben poco.
  Quelli che sanno veramente che cos'è la libertà, quelli che realmente
  aspirano ad essa ed hanno provato, nella dura lotta, quanto poco l'uomo la
  possegga, non ne parlano molto. Ma come vi si perviene? Tre sono
  le vie per arrivare alla libertà: la conoscenza, la disciplina e l'unione. «
  La verità vi renderà liberi », ha detto il Signore. Uno sta tanto più
  profondamente radicato nella schiavitù quanto meno egli sa di essere schiavo.
  Se la situazione comincia a farglisi manifesta, è già incrinata in qualche
  parte. Chi per esempio partecipa della mancanza di cuore comune anche agli
  altri, così, senza rifletterci, è tutto legato in questa situazione. Chi
  consente con tutta naturalezza alle pazzie della moda, chi fa proprie le
  parole ad effetto e le opinioni pubbliche, i cattivi costumi e le cattive
  abitudini dei compagni di scuola, dei colleghi di lavoro, o degli amici,
  naturalmente non se ne libera. Ma se in seguito ad un avvenimento o ad una
  parola comincia a capire quanto servile sia il suo comportamento, quanto
  ingiusto sia il suo giudizio, o quanto cattiva sia una usanza, allora può
  darsi che gli cadano le bende dagli occhi. Si vergogna, non riesce a capacitarsi
  di come abbia potuto comportarsi ed essere in quel modo. Le tenebre si sono
  squarciate e si apre il cammino verso la libertà. Egli vede qual è la
  situazione e dove è necessario che si impegni. Innanzitutto, egli deve vedere
  chiaramente in se stesso. Non basta solo sapere: « sono scortese verso gli
  altri ». Ci si deve chiedere: perché lo sono? E verso chi? Forse si renderà
  conto che ciò che gli faceva sembrare qualcuno antipatico, così da renderlo
  scortese verso di lui, non era che una celata gelosia o una segreta invidia.
  Non basta sapere: « sono negligente nel mio lavoro ». Ci si deve domandare:
  perché? Forse è semplicemente pigrizia bell'e buona: ma può essere anche
  stanchezza. Però bisogna vedere se questa non sia a sua volta causata dalla sregolatezza
  della propria vita: forse ci si corica troppo tardi, mandando avanti
  contemporaneamente ogni sorta di lavoro. Non basta soltanto sapere: « sono
  irascibile verso gli altri, duro nel giudizio, impaziente verso chi mi sta
  vicino ». Bisogna chiedersi: perché ? Forse ci si accorge che  in ultima istanza, tutto proviene dalla
  passione; che vive in noi un istinto non domato che ci rende scontenti.  Si tratta di capire se stessi:
  quali sono nei miei rapporti esterni i legami che posso trascurare senza ledere
  nessun dovere? Dipendo io dagli uomini in quanto cerco di imitarli, ne ho
  paura, sono vanitoso? Sono schiavo delle cose per la mia avidità, la mia
  cupidigia? Sono schiavo della mia natura per le mie passioni, le mie
  manchevolezze, la mia sregolatezza? Quali sono i miei difetti predominanti?
  Come si manifestano? Ci si deve lentamente fare un'idea di se stessi;
  soprattutto è opportuno riflettere subito, appena qualche cosa è accaduta.
  Per esempio dopo uno scontro, o dopo un alterco, ci si chieda:         « Come siamo arrivati fin qui? In
  che cosa ho avuto torto ? ». Ma bisogna avere il desiderio sincero di vedere
  la realtà! Non dobbiamo permettere che la nostra vanità giri la cosa in modo
  da farci apparire innocenti. Un filosofo ha detto: « Quando la memoria
  afferma: tu hai fatto questo, l'orgoglio risponde: non posso averlo fatto. E
  la memoria si sottomette ». Ma vediamo un po' come stanno le cose! Che cosa
  c'è in me che ha potuto portarmi tanto oltre? Abbiamo commesso qualche cosa
  di ingiusto; allora dobbiamo usare di una certa energia nei nostri confronti
  e chiederci: come mai sono a questo punto? Questo è già accaduto altre volte?
  C'è in me qualche cosa che mi spinge a ciò? Dopo un insuccesso
  interroghiamoci: che cosa non ha funzionato? A che cosa ne devo attribuire la
  colpa? A sventatezza, disordine, debolezza, incertezza? In tanti momenti la
  coscienza è più sveglia, lo sguardo più lucido, la voce interiore più chiara:
  bisogna approfittare. Oppure si passi in rassegna alla fine di un mese, di un
  semestre, ecc., il tempo trascorso e domandiamoci seriamente: come è andata?
  E in che cosa ti sei comportato bene? Dove hai mancato? Il lavoro come l'hai
  svolto? Qual è stata la tua condotta verso i famigliari, i genitori, i
  maestri, i superiori, i sottoposti? Possiamo anche servirci a questo scopo
  dell'esame di coscienza che precede la confessione, possiamo prendere di mira
  in noi, per un certo periodo di tempo, un dato difetto. Con tutto ciò non
  intendo certo dire che dobbiamo essere sempre intenti a guardarci e osservarci
  e analizzarci. Questo sconvolgerebbe il nostro animo. L'inquietudine che
  dappertutto vede peccato; la scrupolosità che in ogni caso ci fa pensare di
  essere colpevoli, è forse ancora più cattiva che la cecità disinvolta, poiché
  altera la coscienza e la rende incerta. Ma è necessario voler vedere chiaro.
  Perciò dobbiamo di tempo in tempo esaminarci. Ma con tutta sincerità, con
  occhio acuto che vuol vedere davvero, e chiama senza esitare cattivo ciò che
  è cattivo, e importante ciò che è importante, che non vuole scusare ed
  abbellire, ma cerca la luce. Di qui procede quella verità, che rende liberi. Ma la pura teoria non è ancora
  niente, ci vuole anche la pratica: disciplina e sacrificio. La vera libertà
  si genera e cresce solo dalla disciplina. Se qualcuno ti parla della libertà
  e ti accorgi che questa non procede in lui dalla disciplina, non credergli. È
  un inganno, anche se le parole suonano tanto grandiose. Noi siamo liberi di
  diritto, non di fatto. Per libertà, io intendo dunque la libertà spirituale,
  non solo il fatto di poter andare a destra o a sinistra secondo il proprio
  gradimento. Ora dipende dalla disciplina che noi conquistiamo o meno tale
  tipo di libertà, ma da una disciplina onesta e sincera la quale implica una
  lotta costante condotta giorno dopo giorno contro i vincoli esterni e
  soprattutto interni, e un costante sforzo di vincere se stessi. Ma non
  dobbiamo proporci di fare troppo; poche cose, forse una sola, bastano. Basta
  per esempio proporsi di lavorare con coscienza e di dedicare ogni attenzione
  al raggiungimento di questo scopo. Se faremo dei miglioramenti, in questo
  campo particolare, le conseguenze si rifletteranno anche in tutti gli altri
  perché l'uomo è un tutto vivente. Si può esprimere il nostro proposito anche
  in modo più preciso: io voglio svolgere con più impegno il mio lavoro di
  scuola, o quello domestico. Noi dobbiamo volere qualche cosa di ben chiaro e
  determinato. Alla sera esaminiamo quello che abbiamo saputo realizzare (esame
  di coscienza), alla mattina rinnoviamo il proposito. Sosteniamolo per un
  certo tempo finché ci accorgiamo che si è intimamente rafforzato. Ma poi
  cambiamo e prendiamo di mira qualche altra cosa. I propositi perdono di forza
  col tempo, ci si abitua ad essi: perciò dobbiamo proporcene qualcuno nuovo ogni
  tanto, e così riprenderemo nuovo slancio. Questa è vera disciplina:
  attaccare con forza, combattere valorosamente, spingere sempre più oltre i
  propri tentativi. E prepàrati subito per una lotta lunga. Le inezie, per
  esempio, qualche sgarberia, le puoi presto estirpare. Ma i veri difetti sono
  così profondamente radicati nell'uomo che impiegherai anni per venirne a
  capo. Può anche darsi che, da principio, si verifichi un vero e proprio
  peggioramento. Finché lasciamo andare la cosa per il suo verso non avvertiamo
  in modo particolare la gravità della situazione, ma  se ci decidiamo ad occuparcene decisamente,
  nell'anima tutto si mette in movimento. Rilevare il nostro difetto e
  combatterlo significa talvolta proprio portare a una fase di violenza
  esplosiva la forza dell'errore. Allora si tratta di non esitare e di saper
  resistere.  Su una cosa in particolare
  vorrei richiamare l'attenzione: può darsi che non si facciano progressi.
  Ancora e sempre gli stessi errori, così che il coraggio sta per cedere. Ma
  dobbiamo conoscere l'essenza dell'uomo: può darsi che pur non avanzando in
  ciò che ci siamo proposti, miglioriamo, per compenso, in qualche altro campo.
  Può darsi, per esempio, che uno lotti per un certo tempo con la sua
  iracondia, e non ne venga a capo; ma, senza accorgersene, diventa più gentile
  verso gli altri. Proprio il fatto che egli ha dovuto lottare tanto duramente
  ed ha tanto profondamente sentito la sua debolezza, lo ha portato a questo
  risultato. Un altro si sforza di diventare più ordinato o più accurato nel
  lavoro, e fallisce sempre. Ma, senza accorgersene, riesce a dominare una
  passione. La lotta continua da lui sostenuta per diventare ordinato, gli ha
  dato forza e così non si lascia più trascinare dall'istinto. Nella vita
  interiore tutto si armonizza. Ciò che si è realizzato in un campo si estende
  anche all'altro. Perciò non perdiamoci mai di coraggio! È necessaria anche un'altra
  specie di disciplina: l'ordine. Può parere strano dire che la libertà viene
  dall'ordine, quando ci si è abituati a vedere nel vagabondo senza legami, che
  vive sempre alla giornata e non si lega a nulla, il più libero fra gli
  uomini. Ma essere libero significa che il nostro intimo è indipendente
  dall'esterno, il profondo dal superficiale, l'eterno dall'istante, ciò che è
  nobile da ciò che è senza valore. Ciò che è nobile, eterno, intimo, deve però
  essere difeso perché il non valore implicito in ciò che è istantaneo,
  superficiale ed esteriore non lo sopraffaccia. E questo si realizza per mezzo
  dell'ordine. Nessuna pedanteria dunque, ma ordine come mezzo per realizzare
  la libertà di ciò che è in noi di più veramente nostro. Ordine esterno, prima
  di tutto: sulla tavola, nella camera, nell'armadio. Se è un fatto abituale
  per qualcuno che tutte le sue cose siano mescolate alla rinfusa, come se
  carte e matite e libri avessero gambe e corressero sempre nei posti che non
  sono loro assegnati, egli non è signore di quanto lo circonda. E ciò perché
  il disordine è insito proprio in lui: in lui tutto si rimescola alla rinfusa.
  Lottare per l'ordine significa dunque per lui lottare per la libertà; una
  lotta dello spirito contro il disordine nel proprio intimo. Così bisogna
  anche lottare perché ci sia ordine nel lavoro giornaliero: la levata
  mattutina, il lavoro, la refezione, il riposo devono accadere a tempo giusto.
  Senza pedanteria ma con metodo. Chi non riesce a cominciare e a finire al
  tempo giusto può dire che il suo essere, almeno parzialmente, è schiavo sia
  dell'ambiente che della società, degli impedimenti come del caso. Dunque
  ordine nel lavoro: c'è quello che deve essere fatto prima e quello che deve
  essere fatto dopo. E non a piacere, ma secondo una precisa necessità. Ordine
  anche all'interno del lavoro: se leggi un libro, leggilo veramente, in tutto
  il contenuto; non andare a vedere solo come va a finire. Leggi con attenzione
  le pagine, riga per riga, rifletti sul contenuto, infòrmati su ciò che non
  capisci o cerca di venirne a capo da solo ponendoti delle domande. Manda
  avanti un lavoro con scrupolo e non a capriccio. E poi ordine ancora più
  profondo nel pensiero: penetrare veramente, riflettere su una domanda, non
  decidere per un moto improvviso bensì dopo una certa riflessione. Ordinare i
  pensieri, non saltare dall'uno all'altro. Non lasciarsi fuorviare da nuovi
  estri, ma insistere in una direzione, gradualmente. Ancora una terza strada porta
  alla libertà: la comunanza. Però bisogna intendersi subito: è necessario che
  sia vera « comunanza ». La falsa, lo abbiamo già visto, lega col timore, con
  l'imperio, con la prepotenza. La vera aiuta a procedere verso la libertà. Già
  il fatto che si debba vivere con altri che sono fatti diversamente ed hanno
  altre abitudini da noi e che si debba aver riguardo per loro, ci scioglie da
  certe catene che altrimenti ci legherebbero. Chi va sempre solo, si chiude
  nel suo proprio io fino a che non può più uscirne affatto. Ma se egli vive
  con gli altri, si imbatte ora nell'una ora nell'altra realtà particolare.
  Deve far fronte alla natura altrui, ha sentore di quello che è il loro
  essere, ne sperimenta l'influsso, cerca di capirlo, si chiede in che cosa gli
  altri hanno ragione e in che cosa hanno torto, li tiene in considerazione,
  penetra nella loro essenza per poter istituire un colloquio e una
  collaborazione. Perciò la sua vista si fa più ampia e più libero il suo
  intelletto. Gli accade come a un uomo che dal cerchio ristretto della
  famiglia e della casa esce nel vasto mondo. Egli può certamente soccombere di
  fronte all'altro e perdere il meglio di sé. Ma questo non deve verificarsi.
  Chi invece persiste nel proprio essere, ne risulta aumentato: acquista
  esperienza della vita, diventa capace di giudicare e libero di muoversi. Non sopravvaluta più se stesso
  ma vede la propria natura come un modo particolare d'essere uomo tra gli
  altri modi possibili. Sì, proprio dagli altri, capisce che cosa sia meglio
  per lui. Quante volte uno capisce che una mancanza è brutta solo se la vede
  negli altri! Quante volte ci rallegriamo, a ragione, di una buona forza che è
  in noi se vediamo che gli altri ne sono privi, o se scorgiamo il loro modo di
  impiegarla! Proprio in opposizione all'indole altrui ci è dato avvertire
  quale sia la nostra; e ci raccogliamo e cerchiamo di realizzarla sempre più
  intensamente, se deve affermarsi contro incomprensioni e negazioni. La migliore comunanza è quella che si ha con il buon amico e
  camerata. L'essenza dell'amicizia sta in ciò: che si vuole essere l'uno per l'altro,
  completamente. L'essenza del cameratismo consiste in ciò, che uno vuole avere
  l'altro collaboratore nella stessa opera. Allora deve osservarlo con
  sincerità e dirgli se e in che cosa manca. Un'amicizia ha un alto valore se
  l'uno è sincero nei confronti dell'altro, e questi accetta la sincerità
  esercitata nei suoi confronti. Io dico che sono amici quelli che quando si
  rivedono dopo un certo tempo, si guardano ben bene l'un l'altro. Non come
  spie, di nascosto, ma apertamente. E poi dicono in tutta sincerità: « Questo
  mi sembra giusto, questo no... ». Un tale genere di sincerità è
  difficile. È difficile lasciarsi fare delle osservazioni, spesso ci si
  impenna per una parola. Poiché l'amicizia non è una cosa del tutto semplice:
  a dispetto di ogni senso di lealtà, predominano sulla buona disposizione ogni
  sorta di sottili sensazioni: gelosia, celata avversione, eccitabilità e
  simili elementi torbidi. È come se da un oscuro subcosciente venissero in
  piena luce nelle zone più elevate dell'anima ogni sorta di cose estranee. Già
  parecchie amicizie si sono spezzate perché non si è posta attenzione all' «
  altro uomo » che vive nel nostro intimo, e che si oppone spesso violentemente
  contro una osservazione, la prende per arrogante presunzione, saccenteria,
  smania di dominio, ostentazione di superiorità, Allora si decide se
  l'amicizia ha profondità e fondamento, o se era un puro sentimento superficiale.
  Ma spesso è anche difficile fare un'osservazione a un amico; non vuol venire
  alle labbra. Sappiamo bene qual è la nostra stessa situazione, e ci
  sembrerebbe di fare la parte dei farisei muovendo appunti all'amico; non si
  vuole essere indelicati. Alcune cose poi sono particolarmente difficili: è
  più facile esortare uno a calmare la sua testa calda, piuttosto che
  raccomandargli di attenersi scrupolosamente alla verità, o consigliargli di
  essere più preciso nelle questioni pecuniarie. Nel primo caso si trattava
  solo di una passione, nel secondo dell'onore. Ancora più difficile mi sembra
  dire a qualcuno che egli dovrebbe tenersi più pulito, o mangiare più
  decentemente; perché in questo genere di cose è più facile diventare
  suscettibili. Eppure dobbiamo farlo, renderemmo un pessimo servizio all'amico
  se tacessimo per un riguardo di questa sorta. Rifletti come puoi dire la cosa
  con riguardo, aspetta il momento giusto e poi avanti con tutta sincerità. Di
  primo acchito, la cosa non sarà piacevole per lui, ma poi te ne ringrazierà. C'è ancora qualche cosa che ci
  può aiutare a conquistare la libertà: lo stesso avversario. È degno di un
  maestro esser capaci di farne tesoro! A tutta prima, collera, suscettibilità,
  preoccupazione, desiderio di vendetta, tendono ad ottenebrarci del tutto la
  vista e ci inducono a veder nell'avversario il diavolo in persona. Ma sai
  bene che l'odio ha la vista acuta, l'avversione non si lascia ingannare. Chi
  è capace di utilizzare le osservazioni fatte in loro nome, e sotto la loro
  spinta, ascolterà molte verità sul suo conto: cose dure, cattive, non certo
  amichevoli, ma vere! Verità, spesso, espresse in modo più chiaro e completo
  di quelle che ci dice il miglior amico. Perciò si è potuto parlare del «
  miglior nemico » che inesorabilmente pone il suo « au aut », che penetra in
  ogni volontaria illusione, in ogni compiaciuta contentezza di sé: « Così sei
  tu, bel tipo! Difenditi! ». Allora si decide quanto grande sia veramente la
  nostra sete di libertà e quanto ci sia in noi del tanto proclamato amore alla
  verità: a seconda di come ci difendiamo. Se uno si preoccupa solo di tener
  testa all'avversario, e si oppone alla sua critica con mille motivi, ne può
  trovare in quantità, perché la critica che nasce dall'animosità ha sempre in
  sé anche qualche cosa di ingiusto, se cerca di dimostrare che il suo nemico è
  un brutto tipo e che niente c'è in lui se non cattiveria, volgarità,
  accecamento. Allora ha perso la battaglia anche se costringe l'altro al
  silenzio. Oppure si difende in modo tale da chiedersi, in ogni momento della
  sua difesa che pure è legittima: « Perché questo mi colpisce tanto
  profondamente? E se ci fosse qualche cosa di giusto? ». E se la prende a
  cuore, e cerca di migliorare; allora ha vinto anche se l'altro apparentemente
  domina il campo. La « comunanza col nemico », ecco una prova di saper
  affermare la propria volontà di libertà. Così ci avviciniamo alla
  libertà. Lentamente, ma avanziamo. Dell'aspetto più profondo della libertà,
  veramente, non ho ancora parlato: quell'aspetto che consiste nell'esser
  liberi per Dio. Si tratta di quella particolare situazione per cui un uomo
  supera a poco a poco l'attaccamento alle cose per poter appartenere a Dio e
  possedere Dio. Ma ciò richiederebbe una trattazione a sé.  Spunti per la riflessione: in
  queste lettere non si è insistito oltre sull'argomento ora trattato. Ho
  pensato che tu non hai più bisogno di incitamenti a questo proposito, però
  può esser bene ritornarvi sopra ancora. Azione libera e ingiustizia. Del
  chiedere perdono e del perdonare. Rimediare l'ingiusto. Libertà e fedeltà.
  Quando la fedeltà è scarsa. Se pensiamo ci spetti qualche cosa di più dagli
  altri. Libertà e sofferenza. Legami esterni. Dolori. Imperfezioni. Debolezze.
  Dell'essere di peso agli altri. Sentire gli altri come un peso. I difetti del
  prossimo. Essere liberi e fare del bene. Gratitudine. Delicatezza. * * * |