Giacomo card. Biffi 

 

Una singolare, emozionante

e affascinante ricerca

sulla figura di Gesù Cristo

 

Una  esplorazione  emozionante

Il mondo interiore dell’uomo è sempre un mistero, che non si riesce mai a penetrare del tutto. Tanto più ci è difficile accostarci alla ricchezza dell’animo di Cristo e addentrarci nella sua realtà psicologica.

È una ricerca singolare, problematica, emozionante, ma anche fascinosa e ineludibile. Va intrapresa con umiltà e consapevolezza sempre vigile di quanto siano inadeguate le nostre possibilità conoscitive.

Siamo però incoraggiati nel compito dall’aiuto decisivo offertoci dagli evangeli, che del nostro Salvatore ci rivelano - generosamente - sia pure attraverso testimonianze sparse, occasionali, spesso indirette - i pensieri, la mentalità, gli affetti, i sentimenti, il temperamento, lo stile espressivo e comportamentale.

 

Una  grande  chiarezza  di  idee

Ciò che primariamente colpisce nel magistero di Gesù è la straordinaria chiarezza di idee. Tutto è lucida-mente enunciato senza ambiguità o tentennamenti. Le esitazioni, il rifugio nel soggettivismo, le formule dubitative («forse», «secondo me», «mi parrebbe»), così frequenti nel nostro dire, non si incontrano mai nei suoi discorsi, dai quali sono lontanissimi i vezzi, le civetterie, l’apparente arrendevolezza del «pensiero debole».

Gesù manifesta anzi una sicurezza che sarebbe persino irritante, se non fossimo contestualmente conquistati dall’oggettiva elevatezza e luminosità del suo insegnamento.

Pur nella grande varietà degli argomenti toccanti, non c’è frammentazione o incoerenza nella visione di Cristo. Tutto è raccolto e unificato attorno a due temi fondamentali sempre ricorrenti: quello del «Padre» (un padre che sta all’origine di qualsivoglia esistenza) e quello del «Regno», traguardo di ogni tensione delle creature e del loro peregrinare nella storia.

 

L’attenzione  alla  concreta  realtà  umana

In lui però non c’è nulla né del pensatore distratto, così assorto nelle sue alte elucubrazioni da non accorgersi nemmeno più delle piccole cose, né del superuomo che disdegna di lasciarsi impigliare negli accadimenti senza rilevanza e senza gloria. Al contrario: Gesù si dimostra un osservatore attento - anzi interessato e compiaciuto - della realtà «feriale» nella quale siamo tutti immersi.
Dai suoi detti e dalle sue parabole occhieggiano numerose le normali scenette della vita di allora e di sempre: il bimbo che fa i capricci per avere qualcosa da mangiare, i ragazzi che giocano nelle piazze avvalendosi delle filastrocche tradizionali (Lc 7, 32: «Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto”»), il vicino scocciatore che ti disturba perfino di notte e non ti dà pace finché non l’accontenti, la donna che non si rassegna a non trovare la moneta rotolata sotto i mobili, la partoriente che soffre ma poi dimentica i dolori patiti nella gioia di contemplare il piccolo nato da lei, i servi che si danno alla bella vita nell’assenza del padrone, l’amministratore disonesto e furbo, il trambusto di una festa di nozze, i banchieri che offrono un interesse sul capitale, il ladro che scassina la casa senza mandare preavvisi, il viandante che incappa nei rapinatori, i braccianti disoccupati che in piazza aspettano la buona occasione, la casalinga che impasta la farina e poi la lascia lievitare. Eccetera.

Chi parla così è evidentemente uno che non si è chiuso e arroccato in se stesso, ma è capace di guardarsi attorno e partecipa con simpatia alla quotidiana commedia umana.

Le cose più umili vengono utilizzate nei suoi paragoni: i bicchieri e i piatti da lavare, la lucerna e il lucerniere, il sale da usare in cucina, il bicchiere d’acqua fresca, il vino vecchio che è più buono, il vestito rattoppato, la pagliuzza e la trave, la cruna degli aghi, i danni provocati dalle tarme e dalla ruggine, gli effimeri fiori del campo, le prime foglie del fico, l’arbusto di senape, il seme che cade in terreni diversamente accoglienti e produttivi, la rete dei pescatori che raccoglie al tempo stesso pesci commestibili e pesci da buttare, la pecora che si allontana dal gregge e si perde. E anche questo è un elenco che si potrebbe molto allungare.

Quanto s’è detto dovrebbe bastare a persuaderci che Gesù non ha somiglianza alcuna con l’ideologo che - tutto preso dalle sue grandiose teorie - non riesce più a vedere e a prendere in considerazione le vicissitudini spicciole della gente comune.

E proprio questa sua sensibilità per le piccole cose concrete e l’arte sua inimitabile di incastonarle nei ragionamenti più alti gli consentono di parlare a tutti, anche ai semplici, delle verità più sublimi con la mediazione di un linguaggio limpido e originale; un linguaggio che ci appare ben diverso da quello di molti pensatori professionisti e di non pochi attori della scena politica.

 

Una  volontà  forte

Alla solarità della sua intelligenza e all’efficacia del suo dire fa riscontro una volontà senza fiacchezza, in grado di operare rapidamente scelte operative e di attenersi ai propositi stabiliti senza alcuna titubanza. Ha una missione che ha cordialmente sposato, e non se ne lascia distogliere.

Talvolta questa fermezza trapela perfino dall’atteggiamento esteriore. I circostanti ne sono impressionati, e la narrazione evangelica si sente in dovere di registrarlo: «Si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9, 51). Il testo originale è anche più significativo: to prosopwn ’esterisen tou poreuesqai ’eiV ’Ierrousalem («irrigidì il suo volto per andare alla volta di Gerusalemme»).

Egli è un capo che, in certi momenti, andando davanti a tutti sul cammino che si è prefissato, irradia tanta risolutezza da incutere in chi lo segue meraviglia, soggezione, inquietudine: «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti, e gli andavano dietro pieni di timore» (Mc 10, 32).

 

Libertà  di  fronte  ai  parenti  e  agli  oppositori

Gesù si dimostra sempre un uomo sovranamente libero. Nessuno riesce a distoglierlo dai suoi intenti.
È libero di fronte a quelli del suo «clan», i quali, dopo averlo preso per matto (cfr Mc 3, 21), poi si imma-ginano di poter ricavare qualche vantaggio dal suo successo e dalla sua notorietà e cercano di riprendere  i rapporti (cfr Mc 3, 31-34).

È libero di fronte ai capi del suo popolo e ai suoi avversari, che cercano di ostacolarlo nel suo ministero, e ai quali risponde seccamente: «Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro» (Gv 5,17).
Egli riconosce e rispetta l’autorità, ma non ha timori reverenziali nei confronti delle persone che ne sono investite. Basti pensare alle invettive rivolte ai farisei e agli scribi (cfr Mt 23, 32). Ai sadducei, che ricoprivano le più alte cariche sacerdotali, non esita a manifestare il suo dissenso nei termini più decisi: «Voi vi ingannate, poiché non conoscete né le Scritture né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). Col tetrarca di Galilea, Erode, non fa proprio complimenti: «Andate a dire a quella volpe...» (cfr Lc 13, 32).
Del resto, la sua franchezza è esplicitamente riconosciuta anche da quelli che gli sono ostili, come i farisei e gli erodiani che una volta così gli si rivolgono: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio» (Mc 12, 14).

 

Libertà  dagli  amici

Si mantiene libero - cosa che è senza dubbio più difficile - anche dalle attenzioni affettuose degli amici quando contrastano con la sua missione.

Il caso più tipico e clamoroso è quello di Pietro. A Cesarea di Filippo l’apostolo si vede elogiato per la sua ispirata professione di fede con espressioni di ineguagliabile esaltazione. Subito dopo, però, quando si permette di distogliere il suo Maestro dalla «via della croce», viene investito da parole durissime: «Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai!”. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”» (Mt 16, 21-23).

In un’ora di crisi, quando egli viene abbandonato da molti discepoli che non sanno accettare il discorso sulla sua «carne» e sul suo «sangue» proposti come cibo e bevanda, non cede di un punto, non attenua le sue affermazioni spigolose per amore del dialogo e di una «comunione senza verità»: «Gesù disse ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?”» (cfr Gv 6, 67). Che è una delle frasi più drammatiche e meno obliabili pronunciate dal Salvatore.

 

Libertà  dai  giudizi  altrui

Gesù è libero perfino dalla «apparenza della virtù»; vale a dire, non lo preoccupano affatto i giudizi malevoli e manifestamente infondati, che la gente può formulare su di lui. Egli va avanti per la sua strada, anche a prezzo del deterioramento della sua buona fama: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”» (Mt 11, 19).
Si direbbe che ritenga valido anche per sé l’ammonimento che rivolge agli altri: «Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (cfr Lc 6, 26).

 

La  sensibilità  dell’ animo

Capita spesso che uno spirito assolutamente autonomo ed emancipato risulti poi anche arido, indifferente ai mali altrui, scarsamente sensibile.

Non è il caso di Gesù: in lui la sovrana libertà, che s’è vista, si disposa a una forte emotività e a una estesa gamma di sentimenti.

Per esempio, di fronte alla strumentalizzazione «teologica» della sventura, non sa frenare la collera, come si vede nell’episodio dell’uomo dalla mano rattrappita che gli viene collocato davanti proprio perché egli lo guarisca in sabato e così lo si possa accusare (cfr Mc 3, 1-6). Allora chiama il poveretto nel mezzo, al cospetto di tutti e, dice il testo originale, gira sui presenti lo sguardo con rabbia (met' ’orgeV,) rattristato (sullupoumenoV), per la durezza del loro cuore.

 

La  compassione

Con molta più frequenza gli evangelisti annotano la sua compassione verso tutte le miserie umane. Lo fanno adoperando costantemente un verbo che nella sua etimologia evoca una commozione anche fisica splagkuixesqai («sentir compassione»), da splagkna («viscere»).

È uno stato d’animo che prende il Salvatore all’udire il lamento accorato dei due ciechi di Gerico (Mt 20, 34: «Gesù si commosse»); al vedere l’angoscia di una madre che segue il funerale del suo unico figlio giovinetto (Lc 7, 13: «Vedutala il Signore ne ebbe compassione e le disse: “Non piangere!”»); nel rendersi conto che c’è una folla affamata (Mc 8, 1: «Sento compassione di questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare»); nel contemplare un’umanità dispersa e smarrita (Mc 6, 34: «Vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore»).

 

L’ amicizia

Gesù ha molto vivo il senso dell’amicizia con tutte le sue diverse gradazioni di intensità.
Suoi «amici» egli chiama gli apostoli (cfr Gv 15, 5). Ed è un’amicizia attenta e premurosa, tanto che si preoccupa del loro eccessivo affaticamento: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6, 31). Tra i Dodici si sente più intimo di Pietro, Giacomo e Giovanni, e li vuole vicini sia nell’ora splendente della Trasfigurazione (cfr Mc 9, 28) sia in quella penosissima del Getsemani (cfr Mc 14, 32-42). Al solo Giovanni è stata attribuita la qualifica: «il discepolo che Gesù amava» (cfr Gv 13, 23; 19, 5; 20, 2; 21, 7.20).

Al di fuori della cerchia apostolica è testimoniato il grande affetto da lui nutrito per i componenti della famiglia di Betania: «Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro» (Gv 11,5).

 

I bambini  e  le  donne

Era nota l’amabilità di Gesù verso i bambini: «Gli presentavano i bambini...perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò (letteralmente: “non lo poté sopportare” «’hganakthsen») e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio”. E prendendoli fra le braccia e ponendo le mani sopra di loro li benediceva» (Mc 10, 13-16).

Manifesta molta gentilezza d’animo verso le donne e più di una volta interviene a loro difesa.
Salva dalla lapidazione la sconosciuta sorpresa in adulterio (cfr Gv 8, 1-11), loda, contro i pensieri maligni del padrone di casa, la peccatrice che durante un banchetto offertogli da un fariseo aveva osato venire a profumarlo e a bagnarlo con le sue lacrime (cfr Lc 7, 36-50); ribatte seccamente a Giuda e agli altri commensali che criticavano Maria, la sorella di Lazzaro, per il suo gesto inatteso e la sua prodigalità: «Lasciatela stare! Perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona...» (cfr Mc 14, 6).

 

Il  pianto  e  la  gioia

Sono eccezionali in Gesù la solidità psicologica e il dominio di sé. È tranquillo e impavido nel bel mezzo di una tempesta che rischia di rovesciargli la barca (cfr Mc 4, 35-41), così come con impressionante forza d’animo affronta e quasi ipnotizza la folla inferocita di Nazareth che si propone di ucciderlo: «Tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò» (Lc 4, 28-30).

Non è però un imperturbabile gentleman della società vittoriana, che si fa un punto d’onore di non lasciar trapelare all’esterno le proprie emozioni. Al contrario, Gesù non ha alcun ritegno a mostrarsi sconvolto, come per esempio davanti alle lacrime di Maria, la sorella di Lazzaro: «Quando la vide piangere... si commosse profondamente»; anzi «si turbò», precisa l’evangelista (cfr Gv 11, 33). E al pensiero della morte dell’amico, «scoppiò in pianto» anche lui, tanto che i presenti commentano: «Vedi come l’amava» (cfr Gv 11, 35-36).

Contemplando dall’alto Gerusalemme, alla prospettiva della sua distruzione non sa frenare le lacrime: «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (cfr Lc 10, 42-42).

Ma sa anche entusiasmarsi, lasciandosi contagiare dalla gioia dei discepoli, felici di aver portato a termine la loro prima esperienza di evangelizzazione: «I settantadue tornarono pieni di gioia... In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”» (cfr Lc 10, 17-21).

Gesù era dunque un uomo che sapeva piangere e sapeva stare allegro. Che sapesse piangere è esplicitamente documentato, come s’è visto; che sapesse anche stare lietamente in compagnia, lo si deduce se non altro dal piacere con cui i pubblicani - che erano di solito gaudenti e bontemponi - l’accoglievano alla loro mensa.

Quando aveva di fronte della gente affaticata ed esausta, provvedeva fattivamente a sostenerla. Ma certo non doveva avere l’abitudine di rovinare la serenità e la giocondità di un convito con riflessioni troppo malinconiche o con richiami intempestivi alla fame nel mondo.

Attenendosi appunto all’esempio del Signore, san Paolo enuncerà per i cristiani la regola aurea di comportamento: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12, 15).

 

La « ebraicità » di  Gesù

Tanta pienezza di umanità potrebbe indurre a ritenerlo un soggetto così superiore e ideale da trascendere ogni catalogazione antropologica e ogni specificazione etnica e culturale: quasi un apolide senza appartenenza e senza nessi. Ma non saremmo nel giusto.

Egli ragiona, parla, agisce da autentico figlio d’Israele. La sua «ebraicità» è fuori discussione. Chi non la cogliesse, non potrebbe dire di aver raggiunto la sua effettiva verità: ne risulterebbe un identikit di Cristo alterato e improbabile.

La mentalità, la concezione generale, il linguaggio del Nazareno sono quelli tipici del suo popolo. Sulle sue labbra le citazioni bibliche tornano spontanee e frequenti. I nomi più noti e più cari ai suoi connazionali - Abramo, Mosè, Davide, Salomone, Isaia, Giona - infiorano con naturalezza i suoi discorsi.
Egli padroneggia la dialettica peculiare dei rabbini e se ne avvale nelle sue dispute, come quando riduce al silenzio scribi e farisei partendo dalla loro stessa interpretazione del salmo 110 (cfr Mc 12, 35-37; Mt 22, 41-46).

 

Lo  stile  semitico

Lo stile dei suoi discorsi è quello dei testi letterari semitici. Perciò le sue frasi sono spesso scandite sullo schema (usuale nella poesia ebraica) del «parallelismo», nelle sue variazioni. Citiamo solo qualche esempio.

 

Parallelismo semplice

«Il discepolo non è da più del maestro / né un servo da più del suo padrone» (Mt 10, 24). «Il calice che io bevo voi lo berrete, / e il battesimo che io ricevo voi lo riceverete» (Mc 10, 39).

Parallelismo antitetico.

«Ogni albero buono produce frutti buoni / e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; / un albero buono non può produrre frutti cattivi / né un albero cattivo produrre frutti buoni» (Mt 7, 17-18).

Parallelismo strofico.

«Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, / è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. / Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti / e si abbatterono su quella casa / ed essa non cadde / perché era fondata sulla roccia. / Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, / è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. / Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti / e si abbatterono su quella casa / ed essa cadde, / e la sua rovina fu grande» (Mt 7, 24-27).

 

Il « cuore »

Anche il cuore di Gesù è un cuore di ebreo. Egli ama in modo particolarmente intenso e privilegiato la sua terra e il suo popolo: alla sua terra e al suo popolo egli si sente primariamente inviato: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15, 24). Alla sua terra e al suo popolo è destinata la prima provvisoria missione degli apostoli, che ricevono a questo proposito istruzioni limitative precise: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 10, 5-6).

E abbiamo già visto come il pensiero della futura fine della città di Davide lo commuove fino alle lacrime (cfr Lc 10, 41-42).

 

Un  « integrato »

Egli è un israelita osservante, che onora tutte le tradizioni legittime della nazione. Ogni sabato frequenta, come tutti, la sinagoga. Celebra ogni anno la Pasqua secondo il rito prescritto. Paga, come tutti, la tassa a favore del tempio: «Si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il tempio e gli dissero: “Il vostro maestro non paga la tassa per il tempio?”. Rispose: “Sì”» (cfr Mt 17, 24-25).

Ogni tanto c’è qualcuno che si compiace di annoverare Gesù tra i rivoluzionari politici o gli agitatori sociali; ma le testimonianze ci persuadono piuttosto del contrario. A volerlo denominare con il vocabolario della moderna ideologia eversiva, si dovrebbe piuttosto qualificarlo un «integrato».

Rispetta ogni ordinamento, persino la prescrizione che attribuiva ai sacerdoti la funzione di autorità sanitaria nell’accertamento della guarigione dei lebbrosi: «Andate a presentarvi ai sacerdoti» (cfr Lc 17, 14). E non intende affatto sostituirsi a chi è preposto all’amministrazione della giustizia ordinaria: «Uno della folla gli disse: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”» (Lc 12. 13-14).

La sua «integrazione» è così attesa e totale, che evita di lasciarsi coinvolgere nella contestazione della presenza romana sul suolo giudaico; e anzi riconosce, almeno praticamente, il diritto dell’invasore di imporre la propria moneta e di riscuotere un tributo (cfr Mc 12, 13-17).

 

Il  problema  finanziario

Diversamente da ciò che talvolta è stato affermato, Gesù da buon ebreo non demonizza il denaro. Lo rispetta e si preoccupa anzi di dare alla sua attività una realistica base finanziaria.

La sua piccola comunità ha un cassiere regolarmente designato (cfr Gv 12, 6; 13. 29), e si appoggia a una specie di «istituto per il sostentamento del clero»: «C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni» (Lc 8, 1-3).

 

La  « ricompensa  nei  cieli »

Gesù dimostra la «ebraicità» della sua «forma mentis» persino trattando della vita dello spirito e del rapporto con il Creatore vindice di ogni giustizia.

Egli non si dimentica mai di prospettare il «guadagno» (sia pure un guadagno ultraterreno) come incitamento al bene agire: «Grande è la vostra ricompensa nei cieli» (cfr Mt 5, 2; Lc 6, 23). Si preoccupa di informarci che il Dio vivo e vero non è un seguace dell’etica kantiana; e dunque non ritiene che il disinteresse sia la connotazione essenziale e necessaria della bontà morale di un comportamento: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (cfr Mt 6, 4.6.17).

 

Tratto da:   L'OSSERVATORE ROMANO  19 novembre 1999

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