Testi per la vita monastica                                           San Benedetto - sezione II


scheda bio-bibliografica

P. Jérôme (Jean KIEFER) OCSO

San Benedetto nuovamente seguìto

 

Padre Jérôme (Jean Kiefer) nacque il 17 luglio 1907, a Rodi.  Suo padre era ingegnere a Istanbul, presso il sultano.  Nel 1912 sua madre (che era protestante) morì al Cairo. La famiglia allora rientrò in Svizzera, paese d'origine.  Alla morte del padre egli si stabilì a Friburgo, dove si diplomò ingegnere agronomo nel 1927 alla Scuola Internazionale di agricoltura (a Grangeneuve). Ricevette dai Gesuiti la sua prima formazione.

Nel monastero trappista di Sept-Fons (in Francia) entrò l'8 dicembre 1927, mentre era Abbate Dom J-B.Chautard.  Divenne Professo nel 1931 e Sacerdote nel 1936.  

Dal 1939 fino alla morte (con una interruzione dal 1967 al 1969, dovuta a un tumore) esercitò importanti incarichi di amministrazione, e insegnò filosofia e teologia ai monaci. Si occupava dei campi;  era a disposizione degli ospiti, soprattutto sacerdoti.

È morto la mattina del 29 gennaio 1985.  

È stato un grande maestro di preghiera e di vita spirituale e monastica. 


Gli scritti di P. Jèrôme sono molto brevi e concentrati. Non sono molti, per di più parecchi sono tuttora inediti. 

P. Jèrôme ha scritto solo per i confratelli monaci e per qualche amico. Ma i suoi scritti, ricopiati a mano o dattiloscritti o fotocopiati, sono usciti dal monastero e hanno nutrito anche altri religiosi, sacerdoti e laici, perché esprimono i valori evangelici più profondi, come sono espressi e vissuti nella santa Regola di san Benedetto.

Per noi è molto importante: SAN  BENEDETTO  NUOVAMENTE  SEGUITO;  è per questo che vogliamo condividerlo con voi amici.  

Sappiate che lo approviamo pienamente, e che cerchiamo di metterlo in pratica nella nostra vita quotidiana.


In italiano alcuni scritti erano stati pubblicati dalle Edizioni Paoline nel 1991, raccolti sotto il titolo FEDELI PER SEMPRE (ma tuttora esauriti): “Le vie della Provvi-denza” (pagg. 67-170) e Possibilità e melodie” (pagg. 171-222).

Abbiamo pronta la traduzione manoscritta di: Per una lettura dell’Antico Testa-mento” (“Jalons pour une lecture de l’AT”) e “L'arte di essere discepolo(“L’art d’être disciple”), che speriamo di offrirvi presto.


Non ancora tradotto è: “Invitatoire pour la Salutation Angélique(Invitatorio al-l’Ave Maria”).

Ancora inediti sono:  Appunti dei monaci ai suoi Corsi filosofici e teologici ; “Les 24 thèses cisterciennes”; Lettere, resoconti di colloqui (èditi da P. Nicolas o ancora inediti).


Tutti i diritti sono riservati per il testo:  © all'Autore e all'Editore;   per la traduzione: © al traduttore


 

 

 

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Padre Jerome (Jean KIEFER) OCSO

monaco  trappista  di  Sept-Fons

 

 

San   Benedetto

nuovamente   seguito

 

 

a cura dei monaci dell'Abbazia Nostra Signora della Trinità

Monte Monastero - 29020 Morfasso (PC) Italia

1981 - 1991 - 2001

 

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sommario

  presentazione  

  dedica  

  il  Prologo  

  l' intenzione  principale  

  la  Dottrina  

  la  Cinta  Fortificata  

1. l' Officio Divino

2. il  silenzio

3. l' orazione

4. il  lavoro

  le  situazioni  storiche  

  Padre  e  Capo  

  al di la' della Santa Regola  

1. Presenza  Eucaristica

2. devozione  mariana

         3. preghiera  di  supplenza

         4. coristi  e  conversi

         5. la  vita  contemplativa

  finale  

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Titolo originale:  "SAINT BENÔIT DE NOUVEAU SUIVI" pagg. 81-130 di:

 

Père Jérôme: "L'ART D'ÊTRE DISCIPLE" - Le Serment - FAYARD, 1988

 

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Imprimi potest,  le 17 juillet 1988 - Frère M.-Patrick OLIVE,  Abbé de Sept-Fons

 

Abbaye de Nôtre-Dame de Sept-Fons - 03290 DOMPIERRE-SUR-BESBRE  (France) 

 

 

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ad  uso  manoscritto

 

Tutti i diritti sono riservati

per il testo:  © all'Autore e all'Editore;   per la traduzione:  © al traduttore

 

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traduzione italiana agosto 1991 

a cura dei monaci dell'Abbazia Nostra Signora della Trinità - Monte Monastero

29020 Morfasso (PC) Italia

 tel - fax (0039) 0523 - 914156   e-mail: ansdt@libero.it  – sito: http://digilander.iol.it/ansdt

 

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presentazione 

 

"SAN  BENEDETTO  NUOVAMENTE  SEGUITO"  fu scritto in epoca di grande oscurità (in cui il futuro, nella Chiesa come pure a Sept-Fons, si annunciava difficile), su richiesta di un religioso ancora troppo giovane per lasciar presagire ciò che sarebbe diventato [Fratel Patrick Olive, che dal 1981 è Abbate di Sept-Fons]. Questo testo, che ad un primo approccio sembrerebbe dover interessare solo gli ambienti monastici, traduce le certezze e le intuizioni profonde di Padre Jérôme.  L'apprezzamento più frequente che io ho sentito su Padre Jérôme, da quelli che l'hanno frequentato a lungo e che ricorrevano regolarmente ai suoi consigli, è questo: "Lui sapeva dove andava;  ascoltava a lungo, parlava poco, e le sue parole erano precise". È la stessa impressione che scaturisce da questo testo: una lunga pratica di vita monastica, giorno dopo giorno, su una strada di grande respiro, gliene ha fatto discernere le fondamenta e l'ampiezza, rafforzando le sue certezze.

Padre Jérôme ha molto elaborato questo testo "SAN BENEDETTO  NUOVAMENTE  SEGUITO". Tra la prima versione [1981] e questa [1988] che è l'ultima, egli ha modificato, ripreso, corretto il testo; l'ha ridotto, mai però nell'essenza.  Quando l'ho letto, la mia prima reazione fu di stizza.  Mi aspettavo un commentario magistrale della santa Regola. Immediatamente comunicai le mie impressioni a Padre Jérôme: "Questo non interesserà a nessuno. Sono deluso!".  Dieci anni più tardi sono costretto a riconoscere il contrario.  Ricopiato a mano, battuto a macchina, fotocopiato, ha già avuto una risonanza che supera quella del nostro ambiente monastico. Ma ciò che Padre Jérôme - con acume e con una conoscenza unica dell'argomento - scrive sulla vita monastica è trasferibile a tutti gli ambienti compenetrati dalla fede cristiana: bisogna consacrarsi fino in fondo, con acume e rettitudine, a quello che si è, a ciò che Dio domanda di fare, nel modo più intelligente possibile, nonostanti le nostre remore e gli ostacoli. Padre Jérôme citava Léon Bloy:  "Quali che siano le circostanze, metta sempre l'Invisibile prima del visibile, il Soprannaturale prima del naturale; se applicherà questa regola a tutti i suoi atti, noi siamo certi che lei sarà investito di forza e impregnato di gioia profonda" (Lettera di Léon Bloy a Jacques e Raissa Maritain nel 1906)(*), o più prosasticamente egli ci ripeteva: "Vivete sempre con intelligenza, il più sinceramente possibile [...].

      Uno scritto così specifico come "San  Benedetto  Nuovamente  Seguito",  che si rivolge a dei monaci cistercensi-trappisti, può servire come riferimento per ogni ricerca di autenticità cristiana [...]. Infatti, gli atteggiamenti di fondo che egli descrive valgono per ogni cristiano; soltanto poche applicazioni pratiche sono proprie per i monaci [...].  

     "L'uomo d'oggi, l'uomo veramente indipendente vuol  governare gli avvenimenti a modo suo; la sua situazione non è mai quella che si augurava; vuole cambiarla. Allo stesso  modo rimette in questione ogni certezza, pretende di rimettere  in questione la propria situazione. Perché? Perché non crede più in un Dio che lo ama personalmente. Non vuole più  credere che l'Onnipotente vegli su di lui, nei dettagli come dell'insieme del suo passaggio sulla terra. L'adulto moderno non crede più che Dio « nella notte nera, vede la formica nera, sulla pietra nera ».  Poiché l'uomo del mondo vuol cambiare il suo posto, il suo destino, i suoi idoli, e cambiarli continuamente, l'amico di Dio deve rimanere e stare al posto dove Dio lo ha messo.  Di fatto,  tra gli amici di Dio e il mondo c'è antitesi e rottura. Ciò che uno sceglie, l'altro lo respinge.  Altrimenti non ci sarebbero più due campi, ma uno solo:  il  mondo" (Padre Jérôme, dal testo inedito: "La mia politica per il tempo presente"  27 settembre 1973).  [...].

 

[dalla presentazione  di P. Nicolas (**), maestro dei novizi dell'Abbazia di Sept-Fons]

 

(*)     in: Raissa Maritain, I Grandi Amici, Vita e Pensiero, Milano, 1962]

 

(**)   P.Nicolas ha conosciuto P.Jérôme quando egli aveva sessantadue anni, frequentandolo

          durante gli ultimi quindici anni della sua vita [1969 -1985]. 

 

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a Padre Patrick Olive

 

 

dedica

Caro Padre, lei mi aveva chiesto di redigere, per suo uso personale, un commentario della Regola di san Benedetto. "Commentario": questa parola non mi piace.  Secondo il vocabolario  "PETIT  ROBERT", un commentario è  "l'insieme di spiegazioni, di osservazioni riguardanti un testo". Ora, perché le dovrei spiegare quello che san Benedetto ha saputo dire in modo magistrale? o perché, a proposito della santa Regola, dovrei fare delle osservazioni che darebbero l'impressione di sottometterla al nostro giudizio, essa che invece ci deve giudicare?  

Per cui cercherò piuttosto di dirle le ragioni della mia adesione (per aiutare la sua) a questo venerato testo.  Che i miei cinquant'anni di esperienza servano da contrafforte all'esperienza che lei acquisirà un po' alla volta.  Che la mia fede in san Benedetto diventi la sua, affinché lei ne ricavi quello che ne ho ricavato io.  Siccome lei deve aspettarsi, durante la vita, qualche motivo di scoraggiamento, vorrei convincerla, fin d'ora e per sempre, che questi scoraggiamenti non verranno mai da una insufficienza della santa Regola.  Da questa, al contrario, vengono fede, pazienza e coraggio.

Nonostante la semplicità delle pagine che lei sta per leggere, forse desidera che io le dia una chiave per meglio approfondirle. La miglior chiave che posso fornirle, eccola: "Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur".  Come dire che un testo è capito solo in proporzione all'attenzione, alla disponibilità e alle disposizioni del cuore offerte da chi legge.  Offrirsi, aprirsi, per accogliere.  È un principio ereditato dagli antichi (che san Tommaso d'Aquino cita volentieri) e un principio che invita il lettore a tenersi preparato. 

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il Prologo

Il Prologo della Regola di san Benedetto mette in risalto le parole: "avvertimento", "invito".  "La voce dolce del Signore ti invita, proprio te, dopo averti cercato, proprio te, in mezzo alla moltitudine".  Ecco l'inizio, che lascia già intravedere l'intenzione e lo scopo. 

La voce più forte, la voce più benevola nei tuoi confronti, la voce più sperimentata;  insomma, la voce stessa del Signore:  niente di meno!

Un'affettuosa chiamata lanciata senza rumore, una offerta gratuita, un segno discreto di preferenza, un invito: niente di più!  A te, capire.

Il mondo non invita; non dà avvertimenti. E che avvertimento darebbe? E come potrebbe invitare? Non è una persona, e quindi né un compagno, né un amico. È unicamente un luogo, una regione più o meno accidentata, attraverso la quale, per necessità, gli uomini tracciano ognuno la propria strada. Invece il Signore invita perché è una persona, un essere vivente, con intelligenza e amore. Differenza enorme, che qualifica tutto il procedere del discepolo di san Benedetto. 

Così, per tutta la nostra vita di monaci, noi saremo costantemente degli invitati da Dio nella casa di Dio.  Ora, un invitato non deve forse mostrare una certa distinzione?  Deve cercare di rendersi gradito;  non ha alcun diritto di mettersi in mostra, di imporre i suoi tic o le sue manie.  L'invitato deve attenersi ai motivi dell'invito e nei termini dell'invito.  Se si è invitati per una lunga permanenza, è obbligo di prudenza rileggere ogni tanto la lettera d'invito, e conservarsi nella necessaria delicatezza.  Modestia e contegno.  Perché sono stato invitato?  Rileggere il Prologo della santa Regola. 

Noi saremo sempre degli invitati.  Normalmente, un invito fa sperare in un momento gradevole, in un evento piacevole, al quale ci vien offerto di partecipare.  Ora, nel nostro caso c'è ben di più.  Ogni giorno, fin dal risveglio, all'invitato del Signore sono offerte grazie, prove, lavori, un po' di nascondimento, di intimità, di supplenza.  È tutto questo ciò che spetta al monaco.  Accettando l'invito, egli vuol essere disponibile a tutto;  si fida in tutto. 

Per quali ragioni un giovane si presenta alla porta di un monastero?  Perché sente attrazione ad avvicinarsi a Dio, e perché al tempo stesso pensa che potrà realizzare questo avvicinamento per mezzo della vita monastica.  Spesso, benché l'attrazione si faccia sentire fortemente, il candidato non sa esprimere a se stesso le ragioni che ne deduce e le aspirazioni che essa gli suggerisce.  È per questo che san Benedetto spiega, fin dal Prologo della santa Regola, gli aspetti particolari della divina chiamata, che lui conosce perfettamente, e il programma che ne deriva.  A partire da queste pagine del Prologo,  dovutamente spiegate e capite, verrà deciso tutto.  Così, dopo che gli è stato spiegato il Prologo,  il giovane candidato sa se ciò che lo spinge corrisponde a ciò che pensa e propone san Benedetto.  E se egli vi riconosce una reale corrispondenza, allora non solo il Prologo,  ma anche tutta quanta la Regola si rivolge a lui. 

Ma è proprio cosi facile spiegare il Prologo,  renderne evidenti quelle due o tre idee-madri, che toccano il vertice sia della teologia dogmatica sia della teologia spirituale?  Ahimè! ci vorrebbe una grande esperienza personale, fondata su una tradizione viva.

Per noi monaci la Regola data da san Benedetto non si presenta come un codice di morale, né come un manuale di buoni sentimenti, né come un regolamento disciplinare.  Tutt'altro!  Essa è lo specchio delle nostre aspirazioni e l'espressione più esatta del nostro ideale.  Essa dice quello che noi abbiamo scelto di vivere e di diventare;  e quello che, ai primi giorni della nostra vocazione, fu l'attrazione dominante dei nostri cuori. 

"Che cosa ci potrebbe essere per noi di più dolce, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci invita?  Ecco che, nella sua bontà, il Signore stesso ci mostra la via della vita" (RB.Prol. 19-20). 

Certi discepoli si stupiscono di non sentire più, dopo una piacevole e facile primavera, più o meno breve, questa dolce voce del Signore.  Com'erano incoraggianti quei primi atti di prevenienza divina!  Il Signore se n'è forse partito, incostante, a conquistare altri?  Infatti, il Signore cambia comportamento.  Dopo aver usato la diplomazia per attirare, agli inizi, ora Egli tratta il monaco come un buon operaio a cui ormai sono affidati compiti importanti, specialmente quello della supplenza.  Nonostante questo, nelle fatiche della strada, quando ne avrà bisogno il monaco potrà ritrovare, nella lettura del Prologo,  un'eco incoraggiante di quella dolcezza e di quella fiducia, provate nei primi tempi.  

San Benedetto accoglie in nome di Dio;  promette un futuro in nome di Dio. Tuttavia, agli occhi del principiante, il Prologo  della santa Regola non avrà valore immediato e persuasivo se non nella misura in cui la testimonianza degli anziani della comunità verrà a convalidarlo.  Il Signore, come oggi chiama il novizio, cosi un tempo aveva chiamato noi anziani.  Egli ci ha guidati e noi ora dobbiamo conoscere il significato di questa avventura.  Dobbiamo sapere quanto vale questa vita con Dio.  Noi conosciamo, o dovremmo conoscere, il paese, il percorso, il compagno divino, la qualità dell'aiuto che ci dà.  Con la nostra anzianità noi diventiamo i garanti dell'invito divino rivolto ad altri uomini più giovani.  La nostra testimonianza, espressa sia con le nostre confidenze sia col nostro semplice comportamento, ha un suo peso.

Come sarà questa testimonianza? Avremo il coraggio di impegnare sinceramente dei giovani a venire con noi, per cercare a loro volta, fidandosi di san Benedetto, questa desiderabile vita per Dio e con Dio?  Oppure, non avendo un parere ben definito, saremo di quelli che preferiscono stare prudentemente in silenzio?  Ovvero, come tristi claudicanti di un'impresa troppo ardua, dovremo avvertirli: "Dio ci ha guidati in un modo tale, che preferiamo dirvi di non provarci neppure"?  Certo, per parte mia io non potrei fare un simile discorso di delusione e di miseria!  Credo che se capitasse che anche un solo figlio veramente obbediente di san Benedetto, giudicando globalmente il positivo e il negativo della sua esistenza, si trovasse costretto a dire a dei giovani candidati:  "Non venite ad unirvi a noi", allora (non dispiaccia ai teologi) ci sarebbe menzogna non solo in san Benedetto, ma anche nel nostro stesso grande Dio. 

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l'intenzione principale

Quando degli uomini si riuniscono per camminare insieme, bisogna ben che abbiano uno scopo stabilito in anticipo, e un itinerario per raggiungere questo scopo.  Senza di ciò, cosa potrà fare questo gruppo, se non segnare il passo?  Ora, segnare il passo non ha mai suscitato né entusiasmo né coraggio.  E quelli che, nel gruppo, vedono più chiaramente lo scopo, hanno anche il dovere di ricordarlo a coloro la cui attenzione si disperde o si addormenta.

San Benedetto inizia dunque col fissare lo scopo.  In effetti, in quanto cristiano e uomo di fede, in quanto psicologo e maestro nell'arte di vivere con Dio, in quanto direttore di una scuola e di un laboratorio, egli dà una grandissima importanza allo scopo;  per il semplice fatto che lo scopo, attirandoci a sé, occupa tutti i nostri pensieri e dirige tutte le nostre attività. 

Come definire questa "intenzione principale":  lo scopo più attraente, chiaramente visto e costantemente voluto come totalità, mai abbandonato e sempre ripreso, verso il quale rivolgo i miei pensieri e i miei sforzi? Così come fa un uomo, deciso a diventare scienziato, il quale concentra verso questo scopo tutto il suo lavoro, le sue letture, le sue conversazioni, i suoi viaggi, la cura della sua salute, e anche i suoi sonni.  Ogni uomo è animato in questo modo da una intenzione principale, ma essa è chiaramente visibile solo in coloro che cercano uno scopo lontano, perché elevato e disinteressato, e la cui ricerca impone una grossa razione di sacrifici e di pazienza.  Ora, tale è senza alcun dubbio lo scopo che cerca il monaco, su un invito venuto da Dio stesso.

L'intenzione principale che deve animare il discepolo di san Benedetto si trova espressa ripetutamente nella santa Regola:  nel Prologo,  nel capitolo fondamentale sull'umiltà, e lungo tutti gli altri capitoli, in brani meno estesi ma sempre significativi.

 

C'è innanzitutto una manciata di formule luminose:

"Militare sotto il vero Re, il Signore Gesù Cristo"  (RB.Prol.,3);

"Nulla preferire all'amore di Cristo"  (RB.4,21);

"Non avere nulla di più caro che Cristo"  (RB.5,2);

"Non preferire assolutamente nulla a Cristo"  (RB.72,11);

"Desiderare la vita eterna con tutto lo slancio dell'anima"  (RB.4,46).

 

E poi ci sono tante formule sostanziose come queste: 

"Che meritiamo di vedere nel suo Regno Colui che ci ha chiamati" (RB.Prol.,21);

"Ascoltiamo il Signore che ci indica la via da seguire"  (RB. Prol., 24);

"Coloro che glorificano il Signore che opera in essi" (RB. Prol., 3 0);

"Il Signore aspetta ogni giorno che noi rispondiamo con i fatti ai suoi santi      

       insegnamenti"  (RB. Prol.,35); 

"Se vogliamo pervenire alla vita eterna"  (R.Prol.,42);

"Senza mai allontanarci dall'insegnamento di questo Maestro supremo e nella  

       sua dottrina perseverando fino alla morte in monastero"  (RB.Prol.,50);

"Noi facciamo servizio nella milizia del Signore"  (RB.Prol.,3);

"Rinunciare a se stesso per seguire Cristo"  (RB.4,10);

"Mossi dal desiderio della gloria eterna"  (RB.5,3);

"La nostra vita in questo mondo, che il Signore eleva fino al Cielo"  (RB.7,8);

"Giungere prontamente a questa elevazione celeste"  (RB.7,5);

"Giungere presto a questa carità di Dio"  (RB.7,67);

"Attraverso le quali andiamo a Dio"  (RB.58,8);

"La via retta che conduce al Creatore"   (RB.73,4);

"Tu che ti affretti verso la patria del Cielo"  (RB.73,8);

"Tu arriverai, con la protezione di Dio, a queste altezze sublimi"  (RB.73,9).  

 

      San Benedetto, quindi, fa consistere - per così dire - tutta la religione in tre articoli. Primo: Dio, Signore assoluto, in Cielo;  poi:  il Cielo di Dio, promesso all'uomo e quindi mèta della nostra vita;  infine:  Gesù Cristo, Salvatore dell'uomo per il Cielo.  E questi tre articoli della nostra fede monastica sono perfettamente saldati fra loro, e formano – insieme – un unico bene massimamente desiderabile, verso il quale si rivolgerà la nostra intenzione principale.  La religione del monaco si oppone dunque totalmente all'ateismo e al materialismo di ogni tempo; è assolutamente teocentrica:  Dio;   e decisamente soprannaturale:  il Cielo.  E così l'Ordine monastico è un esercito di Dio, e il monastero un "accampamento di Dio".  

Così, mediante la sua intenzione principale, il monaco riconosce se stesso più direttamente come uomo di Dio, che come uomo di preghiera, sempre che queste due qualità possano venir separate.  Invece no;  anzi, esse si richiamano reciprocamente;  infatti è proprio la preghiera che testimonia la nostra intenzione rivolta a Dio. 

Si dovrà dire allora che l'intenzione principale di ogni discepolo di san Benedetto dev'essere di diventare un contemplativo?  Per "contemplativo" intendiamo "quel fedele in cui la preghiera diventa almeno qualche volta contemplazione";  e per "contemplazione" intendiamo "un certo grado di preghiera, data totalmente da Dio o almeno aiutata da una grazia, durante la quale il fedele si ritrova per un certo tempo unito a Dio".  Nel suo grado minimo la contemplazione propriamente detta si definisce: "una comunicazione oscura di Dio all'anima, che rende innamorata l'anima". 

Detto questo, bisogna dedurre che la preghiera contemplativa non è, strettamente parlando, l'intenzione principale del monaco.  La contemplazione, infatti, si colloca un po' al di qua, poiché appartiene alla categoria dei mezzi.  Tuttavia la contemplazione è ben vicina alla nostra intenzione principale, perché, in quanto mezzo, facilita grandemente la concentrazione del cuore umano sull'intenzione principale descritta sopra.  Mediante la contemplazione - che realizza presenza e intimità - Dio, Signore assoluto, aiuta Egli stesso il suo servo a compiere verso di Lui i suoi doveri di attenzione, di amore e di religione.  A causa di questo aiuto divino, sono molte le condizioni della vita spirituale che cambiano livello.  Dio non chiede che una cosa sola: essere amato.  Se Egli può aiutare una creatura ad amarlo, per lei questo aiuto è evidentemente il mezzo migliore per giungere là dove l'intenzione principale la spinge.  Ma, come in altri casi, il mezzo rimane distinto dal fine.

In un certo senso si può dire che san Benedetto spinge tutti i suoi figli verso la grazia della contemplazione, sperata, possibile, augurabile, a titolo di mezzo molto utile ed eccellente, ma non può fare niente di più in favore del suo discepolo.  Così come il patriarca Giuseppe spingeva i suoi figli sotto le mani benedicenti del vecchio Giacobbe, senza tuttavia potergli imporre le proprie preferenze, né l'ampiezza della benedizione concessa. 

La preghiera contemplativa realizza, fin da quaggiù, l'intimità con Dio.  Ora, se leggiamo attentamente la Regola, non si deve forse concludere che questa intimità con Dio fa parte del contratto?  Certamente.  Per cui il monaco non deve mai disperare di ottenerla.  È in questo senso che Dom Godefroi Belorgey poteva affermare: "San Benedetto vuol fare di noi dei contemplativi!?  Ma tutta la sua opera è per questo!  Senza di ciò è un non-senso la nostra vita, un non-senso il nostro monastero!  Soli Deo!  Tutto, nella vita monastica, è ordinato a questo!" (Istruzione data a Sept-Fons nel 1944). 

Ma il caro Dom Belorgey sapeva anche che - nel campo delle grazie particolari - i beneficiari sfuggono ad ogni verifica (beati coloro che vivono nascosti), e che queste stesse grazie non si lasciano possedere (beati i poveri).

Riprendiamo gli stessi concetti da un'altra angolatura.  L' intenzione principale mira alla felicita più grande, più sicura, più duratura; questa felicità che produce in anticipo un peso nell'intimo del nostro cuore e, in superficie, una fiammella inestinguibile.  L' intenzione principale mira quindi alla vita eterna,  che è partecipazione personale alla vita stessa di Dio.  Ciò significa che anche la nostra intenzione principale riguarda delle Persone:  Dio Padre, che ci darà la vita eterna, e Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, che a lui ci conduce accompagnandoci. Da cui l'espressione:  "Cercare Dio",  che si trova nella santa Regola e che riassume perfettamente sia la nostra intenzione principale sia la spiritualità del nostro Padre san Benedetto. 

Il monaco desidera cercare, per poi un giorno possedere, un Oggetto che è il Bene Supremo.  Avvicinarsi a questo oggetto occupa la sua mente.  Mette così in pratica contemporaneamente parecchi precetti della Sacra Scrittura.  Ma attenzione:  c'è una bella differenza tra questa ricerca, precisa, coraggiosa, di un Oggetto Supremo (ossia:  la ricerca monastica) e la moderna pretesa di "essere alla ricerca",  che significa solo - oserei dire - una miserevole assenza di oggetto.  

Se quindi, in questa teologia insegnata da san Benedetto, io ritrovo la voce divina che un tempo mi aveva inquietato, e poi invitato e chiamato; se la mia mente e il mio cuore si rivolgono ormai verso questo Oggetto, io corro il rischio di chi non ha e non avrà mai altro che un solo cibo per nutrire la sua fame.  La manna, e ancora manna, fino alla vecchiaia!  Allora gustiamoci la gran varietà di cibi al banchetto della vita!  Così pure sarò nella situazione di chi ha una sola carta da giocare: posizione sfavorevole.  Per scegliere la vita monastica ci vorranno quindi motivi solidi, incrollabili.  E questi motivi il discepolo non li cerca nell'analisi o nei calcoli: li trova già deposti, da un Altro, nel proprio cuore.  Da quel momento, se non si distoglie dalla luce che ha intravisto, se vuol essere terreno buono per questo buon seme, se accetta ogni rischio per quest'unica pietra preziosa, allora "inclini l'orecchio del suo cuore" e proceda: la sua intenzione principale non subirà mai un declino. 

Notiamo che se la vita monastica mira intensamente al Cielo, non per questo - secondo san Benedetto - è già una vita celeste.  Avviamento, preparazione, promessa:  sì.   Ma anticipazione, pregustamento: no, nel modo più assoluto.  Non prestandosi a questa confusione, san Benedetto, preciso e realista, evita al suo discepolo tante illusioni quante delusioni.  San Benedetto non segue quindi i Padri, soprattutto greci, che si sono precipitati con diletto in questa confusione, occasione di ottimi voli oratòri.  Un bel danno per loro e per la causa:  infatti esaltare la vita monastica con pseudo-verità non è piuttosto farle un cattivo servizio?  E san Benedetto ci guadagna un sovrappiù di fiducia.  

L'intenzione principale che il discepolo fa sua, lega costui a tutta una serie di obblighi, molto più strettamente di quanto potrebbero fare molte e dettagliate osservanze.  Così san Benedetto, dopo aver presentato al discepolo in modo approfondito e leale questa intenzione principale, "affinché sappia bene a quale scopo entra" (RB. 58, 12: ut sciat ad quod ingreditur), san Benedetto - dico - arriva a fargli questa domanda, a nome del Signore: "Questa è la Regola e il suo scopo.  Se vuoi, se puoi, se speri, entra.  Se, così com'è questa Regola, non vuoi o non puoi, sei totalmente libero di andartene" (RB. 58, 10:  si non potes, liber discede).  

Ammiriamo questo "totalmente libero", che eviterà da un lato e dall'altro, tanti problemi in sèguito!  Dolce compassione?  o ancor meglio dolce ironia?   "Quando un novizio entra - diceva Dom Chautard - suoniamo la campana piccola.  Quando un novizio non abbastanza convinto si ritira, suoniamo la campana grande".  In ambedue i casi, legittima gioia.   Infatti, fra coloro che rimangono nel campo del Signore, non ci vuole né esitazione, né ambiguità riguardo all'intenzione principale. 

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la Dottrina

"Venite, figli miei, ascoltatemi.  Vi insegnerò il timore del Signore"  (Salmo 33 [34], 12).   Che cosa si può venire a cercare in un monastero di san Benedetto se non l'insegnamento di san Benedetto?  E perché chiedere un insegnamento di vita spirituale, se non per metterlo in pratica?  E questo, inoltre, presuppone la sorveglianza e gli incoraggiamenti di un istruttore.

 

In effetti, il principiante non può istruirsi leggendo da solo la santa Regola. Senza spiegazioni, questo testo magistrale o solleva problemi difficili o passa sotto gli occhi senza lasciare niente. Il novizio non vedrà come applicarla alla propria pratica spirituale.   D'altra parte, consapevole di questa difficoltà, san Benedetto non chiede che il principiante legga la Regola, ma che "gliela si legga" (RB. 58, 9.12.13:  legatur ei;  re-legatur ei Regula).  Occorrono delle spiegazioni, fondate sull'esperienza di qualcuno.  È precisamente perché san Benedetto offre ai neo-arrivati una dottrina e procura loro un maestro, che egli può definire il monastero come "una scuola" (RB. Prol., 45).  

Niente dottrina, senza una guida che la spieghi;  niente guida, senza una dottrina a cui egli faccia riferimento. 

Certo, la dottrina spirituale contenuta nella Regola di san Benedetto merita la fiducia di colui che la riceve:  non è venuto lui stesso a chiederla come luce della sua nuova vita?  Ma, ancor più, essa merita totale fiducia da parte di chi la insegna.  Si potrebbero trovare altrove delle garanzie così sicure?  Bisognerebbe esigere, da ogni monaco responsabile a qualunque titolo della formazione, una preferenza illuminata in favore della dottrina spirituale contenuta nella santa Regola.  Ogni idea e ogni consiglio raccolti altrove dovrebbero esser conservati solo se entrano armoniosamente nelle linee essenziali tracciate da san Benedetto, per prolungarle senza deviarle.  D'altra parte, è proprio quando ci si guarda attorno, da una parte e dall'altra, verso le varie correnti spirituali e nella moltitudine dei libri, che si scopre e si apprezza la posizione di san Benedetto, possente, semplice, sicura, e per così dire perfetta.  

Naturalmente, nel corso dei secoli e fino ai giorni nostri, gli scritti dei grandi amici di Dio non hanno mai contraddetto i principi posti da san Benedetto;  essi casomai sono venuti a confermare, precisare, sviluppare questi principi.  Inutile citare qui dei nomi, e far degli accostamenti:  c'è una convergenza costante tra una vastissima famiglia di scritti spirituali e la Regola di san Benedetto.  Così, quale soddisfazione, per chi si trova a dover parlare di vita spirituale, nel possedere una base così sicura.  L'anziano che guida il novizio non ha come còmpito di interpretare san Benedetto, ma di prendere il suo posto, e quindi anche il suo linguaggio. 

Senza dubbio, la dottrina non è tutto.  Essa non impedisce che si producano, in un gruppo di uomini, degli insuccessi o delle rinunce.  D'altronde, quale altra forza potrebbe impedire queste umane delusioni?  Né i buoni esempi degli uomini più santi, né la grazia divina, nemmeno i miracoli.  Resta che la dottrina costituisce una luce e una forza e, in una scuola, una necessità.  Diamo dunque ai monaci, soprattutto ai più giovani, l'interesse, la fierezza, la gioia di studiare e, a poco a poco, di possedere una conoscenza che li aiuti a comprendere la loro professione, la loro intenzione principale e la loro stessa esistenza.  

Che cosa pensare di una casa in cui, proprio per sua destinazione, le menti e i cuori si occupano di vita spirituale, e nella quale non si trasmetta nessun insegnamento riguardante la vita spirituale?  Rinuncia ancor prima di cominciare, prima di provare.  Eppure il discepolo chiede che gli fissino chiaramente non solo le cose da fare, ma anche le cose da pensare, quindi da conoscere.  Esercitare una professione che comporta una tecnica e, possibilmente, una vera scienza, non è la fierezza di ogni professionista?  Come potrà, allora, il monaco procedere con fiducia, se nessuno gli insegna che la sua professione mette in gioco una conoscenza il cui possesso fa parte della sua stessa grazia?  Se, al contrario, gli si lascia credere che la sua vocazione non lo prepara a nulla di ben definito? Se lui inizia pieno di speranza, e gli si fa capire che non c'è niente da sperare?  Infatti la dottrina della vita contemplativa è l'eredità che ogni figlio di san Benedetto si aspetta, e che gli è dovuta. 

Sembrerebbe che in una comunità, in cui la vita spirituale occupa il posto principale e dev'essere il bene in cui tutti si uniscono, ogni religioso che ha l'incarico di parlare, può e deve parlare di vita spirituale;   naturalmente: con competenza e con buon senso.  Eppure questa evidenza non è accettata né sempre, né dovunque.  Ho visto succedere questo, una volta, in un grande monastero.  Un monaco, incaricato di insegnare la filosofia, trova normale dare alle sue lezioni la massima ampiezza possibile;  per esempio, mostrando come ciò che si chiama "tomismo" dia un valido aiuto alla teologia spirituale di san Benedetto.  Semplice ed ingenuo, questo professore era consapevole di non inventare nulla, ma di trasmettere delle nozioni normali, attinte alla più normale delle fonti.  Il suo candore arrivava perfino a sperare di ricevere incoraggiamenti.  Eh, sì!: panico e cataclisma!  Esplose un incredibile disorientamento fra i responsabili di quella comunità.  Gli uni correvano dagli altri, per mettere in comune la loro inquietudine, e far fronte al pericolo.  Queste guide e questi guardiani diedero allora l'esilarante spettacolo di una banda di ragazzi, usciti per la prima volta in barca sul lago e che, di colpo, si accorgono che la barca si riempie d'acqua.  Impazziti si impossessano di qualunque oggetto con superficie concava, per scopar via l'acqua che entra e buttarla al di là del bordo, con il rischio di inzaccherarsi reciprocamente.  Ma perché questa reazione di difesa?  Uno sguardo sereno avrebbe fatto vedere che non c'era nessun pericolo.  Infatti, posso assicurare che l'ingenuo che aveva scatenato questa tempesta non pretendeva né giocare a far la super-star, né creare a suo vantaggio un potere parallelo.  Lavorando gratuitamente, e per una santa causa, poteva forse immaginare che ci sarebbe sempre stata, contro di lui, la mentalità denunciata in Numeri e in Luca ? (*).

Ahimè!  credo che abbiamo perso qualcosa.  Al giorno d'oggi, in quale monastero la spiritualità di san Benedetto è insegnata come sorgente zampillante?  In quale famiglia monastica la santa Regola, considerata non come monumento arcaico ma come riferimento privilegiato, costituisce la base dei colloqui tra il padre e i suoi figli spirituali?  Perché quei libri così preziosi, comparsi verso la metà del nostro secolo, e riguardanti la pratica della preghiera contemplativa, sono, almeno in apparenza, dimenticati?  Perché un insegnamento acquisito con tanta fatica, è cosi raramente trasmesso?  Ci sono delle circostanze nelle quali tutti quanti si perdono. 

 

Immaginiamo, per esempio, un fiume veloce, una barca che risale la corrente grazie al suo motore.  Quando questa barca passa vicino, degli uomini saliti su un fragile battello senza motore lanciano un ormeggio alla barca per farsi rimorchiare. Ma l'ormeggio è troppo corto.  Più si riprendono i tentativi, più la distanza aumenta fra le due imbarcazioni.  E si finisce con questo gesto inumano:  da una parte e dall'altra si lasciano cadere le braccia;  e si dice:  "È inutile affaticarsi;  bisogna rinunciare!".  

In una comunità non dovrebbero mai mancare i testimoni delle principali certezze, in modo che l'esperienza acquisita sia trasmessa senza interruzione.  Se il principiante spera di trovare in monastero un insegnamento e una dottrina provate, evidentemente occorre una continuità!  Che perdita, se non c'è più nessuno che parli con esperienza della vita con Dio;  se, una dopo l'altra, le voci competenti hanno taciuto;  se nessuno sa che il nostro mestiere ha un'anima che lo rende attraente;  se non ci sono altro che i libri, e comunque occorre qualcuno che li scelga.  Ma le voci hanno più calore dei libri, per cui è molto meglio che ci sia sempre qualcuno di vivo per trasmettere la tradizione quando è viva.  Che guaio, quindi, se l'incontro non avviene, se l'ormeggio gettato è troppo corto. 

La situazione appare ugualmente scoraggiante per chi la affronta dall'altra parte:  quando, in una famiglia monastica, ci sono ancora delle voci sperimentate e queste attendono, ma invano, qualche nuovo venuto capace di raccogliere l'eredità, e nessuno viene.  Saint-Exupery in un momento di malinconia scrisse con tristezza:  "Io sono sotto il peso di tesori inutili, come di una musica che mai più sarà capita" (1).  Certo, un giorno, verranno dei giovani:  ma se vengono troppo tardi, per incontrare coloro che possono indicare loro la via?  se l'ormeggio risultasse ancora una volta troppo corto?  Allora, quali difficoltà per coloro che dovranno fare, con i loro soli mezzi, il lungo viaggio! 

Quando Dom Chautard e Dom Belorgey ci parlavano della santa Regola, e principalmente di essa, ne scaturiva, di evidenza in evidenza, una teologia spirituale ampia, chiara, pratica e praticabile.  Quanta luce e attrazione per quelle ricche formule di questo testo venerabile!  Io me ne ricordo con tanto maggior dispiacere, quanto più mi sento non qualificato a ricostituire qui, estemporaneamente, quella dottrina.  Come non pensare che in un dato momento privilegiato, mediante il carisma di questi due maestri e di qualche altro, una chance e una grazia sono state offerte al nostro Ordine?  Come non "temere di averle lasciate passare"?  Tuttavia, la grazia può anche tornare.  È ora, comunque, di rimettersi al lavoro, per ritrovare la vena preziosa della dottrina racchiusa nella santa Regola;  umilmente;  pazientemente;  ma con ardore.  Opera non di erudizione, ma di sapienza.

 

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 (*)"Intanto due uomini, uno chiamato Eldad e l'altro Medad, erano rimasti nell'accampamento e lo spirito si posò su di essi; erano fra gli iscritti ma non erano usciti per andare alla tenda; si misero a profetizzare nell'accampamento.  Un giovane corse a riferire la cosa a Mosè e disse: "Eldad e Medad profetizzano nell'accampamento". Allora Giosuè, figlio di Nun, che dalla sua giovinezza era al servizio di Mosè, disse: "Mosè, signor mio, impediscili!". Ma Mosè gli rispose: "Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!" (Num 11, 26-30).  

"Perché ciascuno sarà salato con il fuoco. Buona cosa il sale; ma se il sale diventa senza sapore, con che cosa lo salerete? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri" (Lc 9, 49-50).  

 

 

 (1)"Citadelle" citato in "La vie secrète d'Antoine de Saint-Exupery", di Renée Zeller.Alsatia 1948, p.161.

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la  Cinta  Fortificata

Il monaco è al tempo stesso un cercatore solitario e una sentinella del Regno di Dio. C'è forse da stupirsi se alcune osservanze monastiche possono essere paragonate ad una cinta fortificata?  Da una parte, protezione (passiva) di un ideale di vita contro ogni invadenza che venga dall'esterno;  dall'altra parte, protezione (attiva) che si estende, dall'alto delle mura, su tutti gli uomini e su tutti i popoli.  Da una parte, baluardi che separano e proteggono il monaco:  "Yahvè ha messo attorno a te mura e baluardi" (Isaia 26, 1);   e dall'altra parte, per le veglie ininterrotte delle sentinelle, cammino di ronda da dove il monaco segue l'avventura degli uomini:  "Ho posto sulle tue mura delle sentinelle" (Isaia 62, 6).

 

Quattro osservanze, soprattutto quattro, assumono il ruolo di quadruplice baluardo.  Esse non sono solo questo, ma questo lo sono.  Dietro a questo quadruplice baluardo il monaco può rifugiarsi, se delle attività non monastiche minacciano invasione.  Queste quattro osservanze si chiamano:  l'Officio Divino,  il silenzio,  l'orazione,  il lavoro manuale.

Persino nell'ambiente tranquillo offerto dal monastero occorre talvolta mettersi al riparo per rendersi liberi;  e rendersi liberi per fare qualche passo di più in compagnia del Signore.  Il monaco cistercense, la cui esistenza comporta una parte così grande di vita comune e di dono di sé alla comunità, prova anche il bisogno di mettersi al riparo, per proteggere ciò che vi è di intimo e di personale nella vita con Dio.  Questo riparo lo trova nelle osservanze, soprattutto nelle quattro citate:  l'Officio Divino,   il silenzio,   l'orazione,   il lavoro manuale.   Io non farò qui una vera e propria trattazione su questi diversi soggetti.  Nelle quattro direzioni che ho indicato, basterà gettare uno sguardo, utilizzando un'esperienza ormai lunga;  uno sguardo, con semplicità, come lo posso fare io, adesso, nella luce della sera. 

 

1. l' Officio Divino

Una comunità cistercense consacra parecchie ore ogni giorno a celebrare l'Officio Divino.  Ecco dunque, ogni giorno, parecchie ore che le occupazioni profane non possono rubare al monaco.  Infatti, in qualunque momento in cui sente suonare la campana, egli deve lasciare cadere sul posto ogni occupazione, per andare ad assolvere il servizio privilegiato che lo mette alla presenza del nostro grande Dio. 

Celebrare la lode di Dio, in quanto Creatore e Provvidenza; lodarlo, come dice la santa Regola, "per i suoi giusti giudizi" (RB.16, 5), ossia per il suo modo divino (e incomprensibile) di guidare l'umanità: quale continua opposizione all'ateismo!  Se è vero che tra gli uomini si fanno due lotte:  una per Dio e l'altra per le tenebre,  chi mai fa questa lotta per Dio e per la salvezza degli uomini in modo più costante e più dichiarato del monaco durante l'Officio Divino?  L'Officio monastico, celebrato "in onore e riverenza della Santa Trinità" (RB.9, 7), costituisce la controparte del rifiuto e della ribellione di molti dei nostri contemporanei.  All'opposto del materialismo, esso è una testimonianza quotidiana, oserei dire continua, della fede cristiana, che guarda, senza venir meno, verso il nostro grande Dio, e si fida del suo piano salvifico. 

Perché san Benedetto ha dato ai suoi discepoli l'incarico di celebrare ufficialmente l'Officio Divino?  Si possono certamente portare varie ragioni, principalmente di ordine ecclesiale.  Io ne vedo una che mi sembra più significativa di tutte:   perché durante la celebrazione dell'Officio il monaco ritrova, e per così dire rilancia, la sua intenzione principale: Dio, il Cielo, il Salvatore, le peripezie del cammino dell'umanità verso il Cielo. 

La campana del monastero suona il richiamo, poiché ogni servizio, e soprattutto il servizio del Signore Supremo, comincia ad un'ora precisa e prende un dato tempo.  Gli stalli sono occupati; i posti sono contati.  L'equipaggio deve trovarsi al completo, nessun membro è di troppo:  ecco "il servizio del Signore" (RB.19, 3). 

La comunità tiene la posizione prescritta, per eseguire un programma assegnato;  la liturgia si svolge, regolata rigorosamente, perché la dignità di un cerimoniale (civile, militare o religioso) deriva dalla precisione richiesta.  Ecco "il dovere del nostro servizio" (RB.16, 2). 

Senza dubbio ogni monaco non può, durante ogni Officio, trovarsi sempre in piena forma, di corpo, di sensibilità e neanche di volontà.  Ma la fedeltà trasforma sempre in profonda testimonianza filiale ciò che è fatto non senza fatica.  Ed ecco "il servizio della nostra devozione" (RB.18, 24). 

E poi sperimentiamo quasi sempre una medesima evidenza: che solenne affermazione contro l'ateismo, durante i nostri uffici, in tutti i nostri monasteri!  Al di sopra e al di là dell'ateismo;  molto al di là!   Che dire, per esempio, del Salterio se non che esso è magistralmente, stupendamente un continuo riferimento al nostro grande Dio, chiamato, invocato, magnificato e desiderato?  Per esempio il salmo 28 [ebr. 29], che non è certo uno dei più lunghi, e nel quale in undici versetti il nome del Signore torna diciotto volte.  "Signore":  da sola, questa parola dà una destinazione suprema ad ognuna delle nostre invocazioni, ed eleva il valore di tutte le parole pronunciate durante l'Officio, a motivo dell'eccellenza del loro destinatario. I versetti dei salmi, con il loro perpetuo riflusso verso il Signore, ci assicurano che, fra tutti gli esseri esistenti, è a Dio che noi siamo più solidamente legati. 

Dopo aver assistito ad un Officio, Saint-Exupery traduceva così le sue impressioni nel: "Canto fermo, mare alto, gonfie vele; tutto andava verso un punto, dritto come un vascello" (2).

 

2. il silenzio

Che il silenzio serva da baluardo, per chi vuol conservare la propria capacità di lavorare, di pensare e di amare, è un fatto talmente accettato che lo stesso linguaggio corrente lo riconosce;  si dice, infatti: "Rifugiarsi nel silenzio".   Tutti usano questa espressione, che io voglio credere di origine monastica.  

Avere in tal modo il diritto (e diritto riconosciuto, perché diritto religioso) di rifugiarsi nel silenzio, che privilegio!  Privilegio, d'altronde, che è tale solo se si ha il coraggio di utilizzarlo. 

Se abbandoniamo il paragone del baluardo e della cinta fortificata, il silenzio offre anche molti altri aspetti.  Io ne considero uno solo, perché è quello che appare con più evidenza a chi può vedere dietro a sé un lungo passato.  Il silenzio è un mistero;  o, più esattamente, l'atteggiamento della gente nei confronti del silenzio pone un problema quasi misterioso.  Tutta la gente di buon senso ammira il silenzio; tutti sono persuasi della sua utilità;  ma non vanno quasi mai oltre.  Perché?  Il silenzio, a quanto pare, si colloca troppo lontano dal comportamento banale;  sembra troppo legato a certe scelte, e troppo vicino alle virtù della fede e della religione.  La sua azione fa pensare a una grande ondata dell'oceano che, dopo aver spinto la nave verso una terra sconosciuta, la lascia su un lido sempre paventato, dove regnerebbe solo la presenza dell'Infinito. 

Il silenzio ha degli effetti importanti sul valore di un uomo.  Ma attenzione: sono un bene e un beneficio del tutto personali, nel senso che dipendono molto dalla persona.  Una certa persona, e non un'altra, saprà gustarlo, conquistarlo, tirarne molteplici vantaggi, e difenderlo.  D'altra parte, fra uomini che lavorano insieme, il silenzio può essere imposto;  una tale costrizione non è dannosa, anzi.  Essa offre ai più irrequieti e ai più frivoli l'occasione di intravedere i benefici del silenzio, se non sempre di praticarlo per convinzione;  e almeno di rispettarlo negli altri.  Infine, l'esempio di un uomo silenzioso, e quindi padrone di sé e laborioso, conquista al silenzio altri nuovi adepti.  San Benedetto non aveva appunto esperienza di tutto questo quando, per la scuola che aveva fondato, scrisse la sua Regola?  Sta a noi, oggi, comprendere lo stretto legame che esiste tra la vita con Dio, il servizio nella casa di Dio, e il silenzio.  

Un'espressione comune dice: "Regna il silenzio";  come dire che, proprio come un sovrano, esso impone una certa  atmosfera e, per mezzo di questa, un orientamento all'animo umano.  Silenzio delle labbra, della mente e delle azioni.  Quale rifugio per tutta una comunità se, in ogni ufficio e luogo di lavoro, l'anziano che presiede ha la cura di far regnare il silenzio;  non solo di evitare il rumore, ma anche di evitare che lo spirito dei fratelli venga distratto da imprevisti, da difficoltà presenti o da pericoli possibili.  Certuni cercano da varie parti ogni via immaginabile per praticare la carità;  ecco una via troppo raramente utilizzata:  prendere su di sé, fermare contro se stesso, non lasciar arrivare fino agli altri, quei "rumori" fatti per turbare gli animi.  Semplicemente perché il turbamento distoglie da Dio. 

Quanto sono benèfici coloro che, col peso del loro silenzio, svolgono un ruolo di diga e di frangiflutti, e fermano contro se stessi ogni tumulto, venuto dal di fuori o dal di dentro!  Grazie ad essi, lo specchio d'acqua resta sempre calmo;  le barche non rompono i loro ormeggi;  gli scafi non si urtano. 

Un certo padre Abbate faceva una volta questa confidenza:  "Bisogna che il Superiore si prenda cura di annunciare alla sua comunità, ogni quindici giorni, un piccolo evento futuro;  per esempio: un cambiamento negli incarichi, una trasformazione negli edifici, il passaggio di un conferenziere, la visita di un Prelato, o altro ancora.  In questo modo, la curiosità è continuamente occupata, e la comunità ha la sensazione di vivere".  Ingenuità e grave danno!  E' un distruggere volontariamente l'atmosfera, e ignorare il bisogno comunitario di silenzio.  Non sarebbe più onesto ritenere che i Religiosi sono capaci e perfino avidi di ritrovare ovunque la loro intenzione principale, e di aiutarli a questo? 

Ricordo quello che fu per me uno dei primi motivi di stupore.  Un tempo, durante le letture pubbliche o le conferenze, se si ascoltava una parola divertente, allora, da sotto i cappucci di ventiquattro monaci seduti, passava e si propagava un riso, ma un riso assolutamente silenzioso.  Questo fatto, in se stesso assolutamente irrisorio, produceva in me una impressione straordinaria.  Che controllo, e quindi che distinzione!  Se un atteggiamento simile ritornasse, riscoperto spontaneamente e senza diminuire la gioia dei cuori, credo che sarebbe un grande vantaggio;   e non solo dal punto di vista  del silenzio.  E il silenzio stesso testimonierebbe l'unanimità di una certa qualità di vita.  

 

3. l'orazione

Sembrerà un'idea strana il paragonare l'orazione a un baluardo protettivo.  Idea strana, magari, ma non ingiustificabile.  Si legga invece quanto segue, non come una apologia inventata, ma come una storia veramente accaduta. 

Ci fu un novizio che aspettava la visita di sua sorella, annunciata per una domenica mattina.  Il Padre Maestro aveva detto al novizio:  "Stia in un luogo dove sia facile trovarla, per non esser costretti a cercarla".  Perché mai questo Fratello si sarebbe dovuto nascondere?  Non era forse felicissimo di rivedere sua sorella? 

Arriva la domenica mattina e il suddetto novizio se ne va dunque normalmente in chiesa, ad aspettare e a pregare.  E, affinché lo possano trovare più facilmente, si mette negli stalli bassi, in cima al coro, vicino al tabernacolo. 

Da quel momento basterà socchiudere una porta qualunque della chiesa per scorgerlo e avvisarlo.

Alla fine della mattinata suonano per la Messa solenne comunitaria.  Con tutti i monaci il Maestro dei novizi si reca in chiesa. (Davvero: perché me lo dovrei inventare, dato che l'evento ci viene offerto dalla realtà, ed è così gustoso?).  Dunque, il Padre Maestro si precipita sul novizio, aggrotta le sopracciglia, lo trascina in sacristia e, con veemenza, gli dice:  "Ma dove si era nascosto?  E' più di un'ora che sua sorella è arrivata!  Io l'ho fatto cercare dappertutto.  Ho persino mandato uno in bici a fare il giro del recinto!". 

Eh, sì!  Credo che solo un amico di Dio può gustare tutto il ridicolo di una tale situazione!  Pensate:  in un monastero, in chiesa (chiara e priva di angolini nascosti),  davanti al tabernacolo (punto di convergenza della chiesa), e per di più di domenica (giorno festivo in tutta la cristianità e, in un monastero, giorno superfestivo);  ebbene, lì, in vista, uno è nascosto, mimetizzato;  che dico:  è introvabile!  Uno è monaco, e dei monaci lo pensano ovunque, tranne in chiesa!  Meraviglia!  Sì, dato che uno fa orazione, eccolo monasticamente mimetizzato, professionalmente introvabile!  

Io non biasimo quel bravo Padre, che si è comportato secondo la sua inclinazione.  Ma sono sicuro che il novizio, quanto a lui,  quel giorno e per sempre imparò che l'orazione vale come un baluardo protettore, un baluardo impermeabile. D'altra parte, san Giovanni della Croce non aveva forse detto, e anche cantato:

"Se in piazza non son visto,

ormai, né incontrato,

sappiate che mi son nascosto,

avendomi l'amor mio rapito"  ?

(Cant. Spir. str. 29)

 

Dopo aver dimostrato che l'orazione può servire da baluardo, guardiamola ora sotto un altro aspetto.  

Ogni uomo che porta in cuore nobili ideali sceglie dei modelli, e guarda costantemente verso dei modelli.  Questi modelli possono essere scelti fra i grandi scienziati, gli artisti, i capi militari;  fra gli uomini di azione, di filantropia o di pensiero;  fra gli uomini di preghiera e i santi.  Essi vengono scelti per modelli in ragione del loro valore personale.  Ma da dove viene loro questo valore personale?  Tutti, senza eccezione, hanno avuto una molla;  una cosetta, in fondo al cuore, che, conservata e sviluppata, ha permesso loro, a ciascuno secondo la sua vita, di superare tutti gli ostacoli e di andare oltre ogni fallimento;  una cosetta in fondo al cuore, senza la quale nulla avrebbero intrapreso e nulla portato avanti;  senza la quale non sarebbero stati che l'ombra di se stessi.  Come chiamare questo "qualcosa"?  Forza?  sorgente?  fiamma?  o ancor meglio:  piccola particella di lievito? 

Nel cuore del discepolo di san Benedetto, destinato a percorrere una lunga strada, c'è quindi questo piccolo "qualcosa" grazie al quale tutto, un giorno, è cominciato e grazie al quale tutto ricomincia, giorno dopo giorno.  Questo "qualcosa", per il monaco, è una grazia divina, e non può essere che una grazia.  Questa forza, questa fiamma, questa particella di lievito, insomma questa grazia si chiama "orazione".   Per suo merito tutti i monaci, nostri grandi predecessori, sono per noi dei modelli.  È con essa che hanno intrapreso tutto;  è con essa che hanno raggiunto tutto.

Sorgente, fiamma, particella di lievito:  perché cercare delle immagini per significare una realtà che è unica e semplice?  Questa particella di lievito, che animava anche tutti quelli che possiamo prendere come modello, è semplicemente un grande amore.  Per alcuni amore della scienza, dell'arte, della beneficenza;  per chi si consacra all'orazione, amore per Dio. 

Nella preghiera, che unisce il monaco (o il cristiano) al suo Dio, vi sono molti gradi;  e la parola "orazione" va bene per designarli tutti, senza distinzione, dalla più semplice preghiera vocale, fino alla preghiera mistica in senso stretto.  Senza precisarne il grado, includendo quindi anche la preghiera più semplice, si può affermare che, senza orazione, un monaco non fa un gran che.  Nell'orazione, invece, possiede una piccola particella di lievito;  e quindi possiede già, in germe, il grande Amore di Dio.  Per questo san Benedetto dà ai suoi discepoli la consegna di osar intraprendere la fatica metodica dell'orazione;  lunga strada per tutti;  talvolta lunga prova e costoso dono di sé.  Ma certamente buona e solida testimonianza d'amore, per chi vuole essere un "supplente" davanti a Dio, e per chi si riconosce creatura davanti a Dio. 

Durante l'orazione il monaco ritrova, sciolta da ogni fine secondario, la sua intenzione principale. Certo, la ritrova già durante l'Officio corale;  ma, in modo particolare, durante l'orazione.  Infatti l'Officio è opera comunitaria;  ma quando si tratta di amare - perché di questo si tratta - l'offerta personale solitamente vale di più di una testimonianza collettiva.

Ci fu un'epoca (mi scusi, non voglio sottovalutare il tempo presente, ma è in quell'epoca già lontana che io ho trovato dei modelli, e ad essa mi devo riferire) dunque, ci fu un'epoca durante la quale l'insieme dei monaci si preoccupava apertamente della questione dell'orazione:  come dedicarvisi;  che aiuti trovare per superare la fatica;  che significato scoprire nelle tappe classiche;  cosa sperare come progresso e come risultato;  come applicare la dottrina insegnata dai libri;  che giudizio dare circa la quantità auspicabile e circa la fedeltà.  Ora, stando al testo della santa Regola, si vede che san Benedetto viveva già in mezzo a discepoli preoccupati di queste medesime questioni, e che ne trattava con loro paternamente. Si può immaginare l'atmosfera cosi creata, l'aiuto offerto a ciascuno secondo le sue capacità, l'orientamento stabile e sereno, da tutti accettato, verso l'essenziale.  Per san Benedetto l'orazione è il buon strumento, che permette il buon servizio.  Infatti

l'Officio Divino, il lavoro manuale, la "lectio divina", l'obbedienza, le osservanze, tutto questo e tutto il resto procederà bene, coraggiosamente, serenamente, se l'orazione va bene.  L'orazione dà respiro a tutti gli altri atti religiosi.  Senza di essa, al contrario, senza questa particella di lievito, attiva e dinamica nonostante le apparenze, tutto diventerà pesante come una pasta pesante.

 

4. il lavoro

Chi ignora che il lavoro, specialmente il lavoro all'aria aperta, come un baluardo protettore isola il lavoratore?  Così, quando un contadino, un giardiniere, un arboricoltore arriva sul suo luogo di lavoro, con un colpo d'occhio ormai esperto definisce gli impegni che si fissa per la mattina o per la giornata.  Poi apre il suo cantiere e, attento unicamente al suo lavoro, associa a se stesso un compagno:  il silenzio. 

Io, il lavoro, non lo giudico da dilettante.  Io faccio parte di una generazione di monaci che lavoravano all'aperto, con gli zoccoli, poveramente protetti dalla pioggia e dal freddo, e le cui mani conobbero più il manico degli utensili o le briglie dei cavalli, che il volante del trattore.  Per molti anni ho  conosciuto le lunghe fila di barbabietole che dovevamo sarchiare con la zappa, e le fila di patate canadesi da cavare col rampino, e gli invincibili vilucchi nella vigna, e la gramigna nelle patate. 

Ma che bei momenti di unione con Dio si praticavano normalmente durante il lavoro, e come aveva ragione Thomas Merton, ossia Padre Louis, monaco dell'abbazia di Gethsemani, di scrivere:  "Come è necessario per i monaci lavorare nei campi, sotto la pioggia, il sole, nel fango, nell'argilla e nel vento!  Ci ispirano la virtù, ci rendono stabili come la terra in cui viviamo" (3)!

C'è, nella vita cistercense, un lato campagnolo, felicemente ereditato dalla volontà e dalla sapienza di san Benedetto.   San Benedetto non obbliga indistintamente tutti i suoi discepoli al lavoro dei campi, ma vi incoraggia fortemente tutti coloro che lo possono.  Ora, quando ci si avvicina alle condizioni di vita previste da san Benedetto, ci si avvicina anche alle promesse di ordine spirituale che egli ha fatto ai suoi figli a nome del Signore. Il lavoro dei campi è un mezzo per creare uno stile di vita e un'atmosfera, per mantenere una sensibilità e un equilibrio. Se la maggior parte di una comunità dovesse compiere un lavoro di officina o d'ufficio, mi chiedo che cosa succederebbe, a lungo andare, dei loro "nervi"!  

Circa il lavoro monastico, l'esperienza permette di ripetere l'affermazione già fatta in queste pagine:   certi monaci, durante il loro lavoro, e grazie alla libertà di spirito che esso permette, ritrovano la loro intenzione principale, alla loro maniera, semplice e silenziosa.  Un padre spirituale sa capire se c'è, tra coloro che egli guida, e qualunque siano le apparenze, questo orientamento e intenzione del cuore, verso Dio presente e verso il futuro celeste;  sa incoraggiare, e magari invogliare, questa pratica della preghiera congiunta con il lavoro delle mani;  pratica che produsse i più bei periodi della storia dell'Ordine cistercense.  Quanti fratelli conversi ho sinceramente ammirato e amato perché, in modo evidente, compivano il loro lavoro,  che prendeva quasi tutta la loro giornata, non solo per Dio, ma anche con Dio.  Durante le ore passate nei laboratòri o nelle terre del recinto, si sentivano "pienamente monaci" (RB.48, 8) acquisendo ed esercitando un reale valore professionale.  Più d'uno di questi fratelli conversi rappresentavano, per i giovani fratelli che li vedevano e stavano accanto a loro, degli eccellenti maestri nell'ideale proposto da san Benedetto: "fortissimus genus"  (R.1,13), la solida falange dei monaci-lavoratori di Citeaux.

 

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(2) "Plain-chant; pleine mer; voiles pleines; ça allait quelque part, droit comme un navire", da:  "Citadelle" citato in "La vie secrète d'Antoine de Saint-Exupéry", di Renée Zeller, Alsatia 1948, p.161.

 

(3) "Il segno di Giona", Garzanti, Milano 1963.

 

 

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le  situazioni  storiche 

Quando un postulante sollecita la sua ammissione in un monastero contemplativo, ci sono per lui tutte le chances di una buona riuscita.  Ma cosa intendere con questa parola:  "riuscita"?  Indubbiamente bisogna rifarsi ancora all'intenzione principale.  Riuscire significa:  incontrare Dio, e non solo alla fine dell'esistenza, nel momento in cui si rende l'ultimo respiro - e sarebbe, certo, già tanto! - ma già molto prima.  In altre parole:  vivere con Dio lungo gli anni del cammino.  Ogni principiante animato da questo spirito ha anch'esso ogni chances di attuarlo. 

 

Invece, che una comunità tutta intera, insieme e nello stesso tempo, possa realizzare, unanimemente e ad ogni generazione, questa spirituale riuscita, niente può garantirlo.  Questo si realizzerà qualche volta, ma non sempre, né in tutti i monasteri.  La storia lo mostra.  Indubbiamente il nostro Supremo Padrone e Signore tiene conto delle situazioni umane e della loro costante mutevolezza!  Questa constatazione d'altra parte non svaluta affatto l'istituzione monastica, perché, anche in periodi di recessione, i monaci, nel loro insieme, ricevono nonostante tutto, dalle loro comunità, degli stimoli e delle grazie che non troverebbero da nessun'altra parte. 

Durante i primi anni della mia presenza in monastero, Sept-Fons vedeva passare, ogni autunno, qualcuno degli Abbati dell'Ordine, i quali, convocati per il Capitolo Generale, erano diretti a Citeaux o ne stavano tornando.  C'era in questa pratica, con il convergere da tutti i punti del pianeta verso il monastero "capo e origine dell'Ordine" un ritorno dichiarato e affermato verso la sorgente.  E anche quelli che non partecipavano al viaggio, i semplici monaci come lei e come me, trovavano in questo pellegrinaggio compiuto da alcuni, un ritorno di fiducia nell'Ordine di Citeaux, nobile e possente entità, e segnava cosi, ogni anno, la sua vitalità. 

Si fermavano di preferenza a Sept-Fons gli Abbati che si sentivano in risonanza profonda con Dom Chautard.  Essi venivano dunque a rinfrancarsi presso il Padre e la sua comunità, identificando questa con quello.  Il Capitolo Generale si teneva obbligatoriamente nell'Abbazia di Citeaux, e si concludeva il 14 settembre, nella festa dell'Esaltazione della Santa Croce. 

Anche altre coincidenze capitavano a questa data.  Così, questa stessa Festa dell'Esaltazione della Santa Croce inaugurava contemporaneamente l'inizio dei digiuni particolari dell'Ordine, e il cambio dell'orario quotidiano.  Per segnare la nuova tappa, questa festa era certamente ben scelta;   essa ci offriva bellissimi testi liturgici corrispondenti alle aspirazioni dei nostri cuori, e ci invitava all'adorazione del nostro Salvatore nell'atto generoso della nostra Redenzione. Prima del grande raccoglimento annunciato dall'avvicinarsi dell'inverno, noi trovavamo, in questa Festa della Santa Croce, come un ripetitore del Venerdì Santo, e un richiamo al nostro ideale di unione con l'opera del Signore. 

In quei tempi, ogni estate ci portava vita dura, con molti lavori agricoli, eseguiti con poche macchine.  Così l'autunno, sempre benvenuto, ci annunciava un maggior spazio finalmente consacrato alle tranquille attività che permettono una ripresa della vita interiore.  Durante i grandi lavori delle ultime settimane, tutto ci annunciava già la pace.  L'aria diventa di una limpidezza eccezionale, e i rumori familiari della campagna si sentono ormai da lontano.  Le rondini seguono da vicino i sotterratori di stoppia o gli aratri, per dare, prima della partenza, l'arrivederci dell'amicizia. 

Di solito, gli Abbati di passaggio ci facevano delle conferenze spirituali. Questo Capitolo Generale (allora meccanismo efficace della vasta impresa cistercense), questo cambiamento d'orario (che ci faceva tornare alla "lectio divina"), questa Festa della Santa Croce (che serviva di cerniera e di inizio), infine la convergenza di tutto questo, non era forse, psicologicamente, un capolavoro d'arte?  una robusta architettura cistercense ereditata dall'età dell'oro? C'era effettivamente, in tutto questo insieme, un fascio di significati tanto vividi da non lasciare indifferente nessun cuore.  Noi non chiedevamo altro che di crederci, e non ne eravamo certo delusi. 

Infatti, in un ambiente che deve conservarsi perpetuamente vicino al sacro, è importante non lasciare che vadano perduti i significati.  Quando la fede è viva nella cristianità, ed essa anima con sovrabbondanza i monasteri, ogni coincidenza e ogni tradizione ha il suo significato, che si ripercuote nei cuori.  Con il diminuire della fede, i significati si perdono, ed anche, in una certa misura, le certezze che costituiscono la forza collettiva dell'Ordine.  Una perdita trascina l'altra.  Ma allora, che interesse ci sarebbe a fare riferimento ad una stessa terra, se non vi si semina più lo stesso seme?  E che importanza avrebbe collegarsi o no a un luogo, se non si percepisce più il sacro?  Che importanza avrebbe, anche, conservare delle posizioni certe e definite?  In una parola, che importanza avrebbe oggi Citeaux, se non si esige più niente in nome di questa nobile origine? 

Alla fine del XIX secolo, al tempo della ricostituzione del nostro Ordine, i numerosi monasteri hanno scelto, all'unanimità, come motto: "Cistercium  mater  nostra",  che significa: "Citeaux è nostra madre", o meglio:  "Citeaux resterà nostra madre".  Con questo, tutte le comunità affermavano che Citeaux, ossia la comunità d'origine, così come essa visse sotto la guida degli Abbati Roberto, Alberico e Stefano, restava per sempre il loro modello perché essa era stata, nei confronti della Regola di san Benedetto, al tempo stesso fedeltà e risurrezione.  Ora, ecco che dopo questa fine del secolo XIX sono state fondate delle comunità dell'Ordine sotto i climi più diversi.  Ben presto le differenze di temperatura e di alimentazione incontrate in questi lontani paesi obbligarono le fondazioni monastiche a modificare,  o anche ad abbandonare non poche prescrizioni materiali della santa Regola, pur mantenute a Citeaux.   Ma allora, se il monaco d'Africa o di Indonesia non pratica la Regola di san Benedetto come lo si faceva o lo si fa a Citeaux, in che cosa questo stesso monaco potrà dirsi di Citeaux?  che cosa lo farà di Citeaux?  Rispondo:  una dottrina, ed essa sola;  una dottrina che sia di Citeaux.  La dispersione del nostro Ordine in contrade così diverse rende dunque più necessario che mai il legame costituito da una stessa dottrina, dalla quale potrà provenire, partendo dalla Regola di san Benedetto, uno stesso modo di cercare Dio e di seguirlo. 

Si pone allora la domanda: esiste nell'insieme dell'Ordine una solida tradizione che prenda per base lo  studio dei princìpi dati da san Benedetto come dottrina della vita di preghiera? Esiste una solida corrente di teologia spirituale, continuamente arricchita, e abbastanza ampia per alimentare le diverse attrattive individuali, e sufficientemente viva per trascinare i monaci su una stessa strada?  Infatti, è a questa condizione che essi potranno, tutti alla pari, dirsi di Citeaux. 

Ora, questa indispensabile corrente di dottrina è giunta fino alla nostra portata; questa penetrazione della santa Regola, scoperta come sorgente comune e inesauribile di spiritualità, ci è stata presentata.  Ciò avvenne, approssimativamente, negli anni fra il 1910 e il 1940.  Questa corrente nacque verosimilmente nella nostra abbazia di Chimay, all'epoca in cui vissero Dom Anselme Le Bail e Dom Godefroid Belorgey. Non sto parlando della corrente di erudizione patristica, nata anch'essa in questo monastero;  ma voglio qui ricordare quella che fu esplicitamente una ricerca di Dio, basata sui princìpi e sulla lettera stessa della santa Regola.  Non semplicemente una "ricerca", ma una ricerca "di Dio", essendo evidente che quest'ultimo termine è essenziale per ogni discepolo di san Benedetto. 

Ma come mai questa corrente non ha proseguito la sua corsa, irrigando un po' alla volta le alte e basse contrade, e diffondendosi in tutto il nostro Ordine?  Perché le voci competenti non hanno, fino ai nostri giorni, e senza che ci fosse interruzione, insegnato, persuaso, incoraggiato, nell'insieme dei nostri monasteri?  E se questa corrente sembra essersi perduta nelle sabbie del deserto, non c'è nessuna possibilità, essendo portatrice di tali promesse, di farla rinascere? 

E' questo il punto in cui conviene indagare sulle circostanze storiche.  San Benedetto, e la Regola che ci viene da lui, e l'ideale monastico che questa ispira e sostiene, hanno già percorso insieme quindici secoli di storia.  Nel corso di questa lunga esistenza, l'ordine monastico e, specialmente dopo l'XI secolo, l'Ordine cistercense hanno conosciuto periodi regolarmente alterni di fervore e di decadenza, come l'hanno fatto notare gli storici, come Dom François Vanderbroucke e Dom Jean Leclercq (4). 

I periodi di fervore contemplativo sono stati, ogni volta, piuttosto brevi, non superando mai due generazioni successive, una che prepara lo slancio, l'altra che lo realizza e raggiunge essa stessa l'apice.  I periodi di decadenza, segnati spesso dallo spopolamento dei monasteri, sono stati, ogni volta, relativamente lunghi, estendendosi a parecchie generazioni.  Il fatto è che l'uomo o i pochi uomini risoluti, che potrebbero ricondurre il fervore, non si possono trovare su ordinazione.  Così, succedendo a un periodo durante il quale tutto quanto l'Ordine si avvicina realmente al suo ideale contemplativo, sopravviene immancabilmente un periodo di "sconfitta dei mistici", più o meno spettacolare, più o meno drammatica, dalla quale ci si domanda se l'Ordine e il tal monastero ce la faranno a venirne fuori, per continuare secondo Dio la via sinuosa della grazia in mezzo agli uomini. Dei treni che si seguono, nella stessa direzione e sugli stessi binari, hanno tutti le stesse possibilità di arrivare alla stessa mèta.  Invece, delle generazioni di monaci, che dichiarano di seguire la stessa Regola, in direzione del medesimo ideale, non fanno necessariamente lo stesso percorso né hanno lo stesso risultato. Al di fuori dei periodi felici, ma eccezionali, sembra dunque che l'ideale contemplativo si presenti piuttosto come una avventura personale, riuscita per alcuni, nei quali il dono di Dio, la pazienza umana e la tenacia si sono felicemente assommate.  Così, anche nei periodi di decadimento, ci furono, a dispetto di tutto, dei monaci che, conservando una fiducia assoluta nell'eccellenza della santa Regola, e grazie a una certa clandestinità, sono riusciti a vivere per Dio e con Dio.  Nei confronti dell'ambiente sfavorevole che li circondava, vediamo qui un felice trafugamento, grazie al quale si conservava una tradizione e si preparava un rinnovamento più o meno lontano. 

Quand'ero giovane religioso, ero particolarmente attento ad ogni parola, venuta dai predecessori, che potesse rivelare le sinuosità dell'azione divina lungo l'esistenza delle nostre comunità. In quei tempi, per esempio, Dom Bernard, Abbate di Aiguebelle già da molto tempo, e che capitò di passaggio a Sept-Fons, ci parlò in questi termini:

"Ai tempi lontani della mia giovinezza religiosa, la comunità di Aiguebelle, come la maggior parte delle comunità del nostro Ordine in quei tempi, viveva anni faticosi;  l'agricoltura procurava risorse insufficienti, e non c'era altro mezzo di sostentamento.  Abbiamo dovuto lavorare manualmente, e dal mattino alla sera, senza distinzione di sacerdoti o fratelli, di novizi o anziani.  Lavoro manuale e Officio Divino: abbiamo conosciuto solo questo.  Certo, noi abbiamo amato la nostra esistenza tutta consacrata a Dio.  Ma noi guardammo anche al futuro, e pensammo che, grazie al nostro lavoro, la generazione che sarebbe venuta dopo di noi avrebbe potuto beneficiare di quelle ore di riposo spirituale e studioso previste dalla santa Regola, e che tanto aiutano il monaco a volgersi verso Dio.  E oggi, che l'aspetto temporale è assicurato ovunque nei nostri monasteri, sta a voi, che ora ci seguite, trarre vantaggio, per il miglior servizio di Dio, da tutto ciò che la nostra generazione vi ha preparato".  Testimonianza commovente, certo;  ma molto più commovente ancora la richiesta, per non dire l'ingiunzione, che serve da conclusione. 

Dobbiamo compatirla, quella generazione di monaci?   Certo che no!  La prova sta nel fatto che essi, in genere, hanno conosciuto la gioia spirituale, e che sono stati loro a fare, proprio su questo, la reputazione della Trappa e dei trappisti:  nella vita più dura, gente felice e gioiosa.  Non pensiamo che essi si sono sacrificati.  Al contrario, le "generazioni sacrificate" piuttosto sono quelle che hanno tentato di adattare e di sminuire la santa Regola e, con molta ingenuità, di metter dell'acqua nel vino dello Spirito versato da san Benedetto. 

Ecco quindi il movimento storico di cui ho voluto fare un quadro: prima una generazione ascendente che, nella sincerità e nello sforzo, prepara un autentico slancio;  slancio che sboccia nella generazione seguente, che in questi ultimi tempi contò dei monaci che furono per noi, per me stesso, dei modelli, dei trascinatori e dei maestri. 

Certo, non si tratta in tutto ciò che di "visioni d'insieme", le quali lasciano il posto a ogni possibile avventura individuale.  Ricordiamo comunque quest'idea:  in un periodo storico, che può anche esser lungo, non ci sono altro che due generazioni di monaci, strettamente legate una all'altra, nelle quali sarebbe una felice chance, e un immenso vantaggio, e una grazia immeritata, potersi infiltrare:  o nella generazione che paga per una ascesa o nella generazione che, raccogliendo lo sforzo della precedente, si stabilisce per qualche anno sulla cima.  Bisogna dire "per qualche anno", perché stare sulla cima, in uno slancio concertato, tutt'intera la comunità, con unanimità totale di cuore e di mente, con la grazia divina che produce così un successo collettivo, non bisogna farci conto troppo spesso.   Troppo bello per sperarne un frequente ritorno; è sperare troppo lievito divino, nello  stesso tempo, dentro alla stessa massa di pasta umana.

Uno sguardo sulla storia non è mai scoraggiante, perché mostra che sempre la vita o continua o riprende, compresa la vita spirituale.  Vivere con Dio, ecco, per noi, ciò che conta.  Di conseguenza, caro Padre, se i fatti la portano a constatare che lei non si trova dentro né in una né nell'altra di queste due generazioni privilegiate, non si scoraggi, e giochi la sua chance personale, poiché questa rimane tutta intera.  Solo, sappia che questa chance è personale, ossia incomprensibile, se non addirittura fastidiosa per qualcun altro.  Vada avanti e creda in Dio.  Avrà almeno la fortuna dello sfortunato che riesce, proprio grazie alle difficoltà.  Lei avrà per lo meno la chance dell'isolato, che può se non altro gettare uno sguardo verso i grandi predecessori.  Lei avrà certamente la chance del cuore coraggioso che nulla riuscirà a distogliere dalla sua impresa.  Fu la sola chance che ebbero molti di coloro che, nei periodi di recessione, non hanno mollato, e che divennero degli amici di Dio. 

 

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(4) cfr. "La spiritualità del Medio Evo", Ed. Dehoniane, Bologna, 1986.

 

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Padre  e  Capo

Non intendo rispondere, qui, a un questionario del tipo: "Che cosa si aspetta dalla gerarchia?",  oppure:  "Che cosa si aspetta dal Padre Abbate?".  Semplicemente, dato che non si può evitare l'argomento quando si legge la Regola di san Benedetto, farò delle riflessioni, suggerite dalle situazioni storiche che abbiamo appena esaminato, e che la mia anzianità mi permette di vedere con la serena luce della sera.  E anche perché ho conosciuto degli uomini che credevano di guidare tante cose, e di tenere molto in pugno, ma che furono così poco efficaci quanto un pesciolino rosso che gira in un acquario. 

 

Ogni monaco ha bisogno di trovare nel suo monastero un'atmosfera favorevole alle sue aspirazioni;  una comunità nella quale le sorprese, le distrazioni, gli inconvenienti non possano moltiplicarsi;  e infine una tranquillità che favorisca l'attenzione verso le occupazioni principali.  Ogni monaco ha bisogno che i valori essenziali rimangano visibilmente gli stessi, e che l'insegnamento ricevuto ieri sia ancora valido domani e dopo. Infatti ogni cambiamento porta un turbamento;  ogni novità invita il monaco a ritirare la sua attenzione dal servizio di Dio, per aspettare di vedere quanto varrà la suddetta novità.  Che cosa succederebbe a una casa nella quale si cambiasse continuamente il mobilio?  Il mobilio non è che un elemento accessorio.  Eppure in una simile casa, padroni e servi perderebbero il gusto del lavoro serio.  Non potrebbe essere la casa in cui si persegue una grande opera di scrittore o di scienziato, poiché per ogni grande opera occorre prima di tutto la continuità.  Allo stesso modo il monaco non può adempiere al suo incarico se non in un ambiente in cui le menti siano in pace, e il cui orientamento è fissato definitivamente.  Ora, tutte queste condizioni dipendono moltissimo dall'Abbate. 

Secondo san Benedetto, l' Abbate deve mostrarsi l'artefice della continuità, l'uomo le cui certezze non cambiano, perché è sicuro dell'eccellenza del suo scopo, ed è tranquillamente in possesso dei mezzi per raggiungerlo.  Altrimenti come potrebbero i monaci, ognuno secondo le sue attitudini, camminare al suo sèguito sulla strada cosi spesso invisibile? 

D'altra parte, la stima che proviene dal capo è necessaria all'equipaggio. L' Abbate deve dunque saper riconoscere lo sforzo fatto da ognuno dei suoi figli, sforzo fatto, evidentemente, secondo i mezzi propri di ciascuno di loro.  E duplice sforzo: da una parte, la pietà personale;  dall'altra, la dedizione alla comunità.  In effetti, ci son forse molti laici che fanno per la loro famiglia quanto un monaco fa per la sua comunità?  Ci son forse molti secolari che mettono nel loro mestiere tanta assiduità quanta ne mettono così numerosi monaci nel servizio di Dio?  È giusto, quindi, che i monaci siano stimati dal loro Padre Abbate, in ragione di ciò che essi fanno su questi due piani.  Il Padre Abbate deve questa stima ai suoi fratelli perché essi perseguono il suo stesso ideale, e perché essi sono vincolati agli stessi doveri.  Dev'essere facile all' Abbate stimare i fratelli se, prima, stima la loro vocazione.  

Ogni monaco vale quanto vale il suo punto di partenza e il suo punto di arrivo.  Ora, al punto di partenza, su una chiamata di Dio tutti hanno rinunciato a diversi tipi di possesso per mettersi in cammino verso Dio;  e, al punto di arrivo, essi si troveranno tutti in Dio.  Per ognuno di essi, punto di partenza e punto di arrivo hanno dunque un valore di due assoluti.  E questi due assoluti qualificano, giorno dopo giorno, tutto il periodo intermedio della loro esistenza.  Quanto alle miserie che può conoscere questo periodo intermedio, il Padre deve aiutare a portarle.  Il Padre deve amare i suoi figli a misura della loro debolezza, e stimarli a  misura del loro ideale. 

Certo, per rimanere vent'anni, trent'anni, e più, in simili disposizioni, occorre un cuore grande, capace di seppellire nel silenzio non poche delusioni, e di agganciare sempre molto in alto il proprio Ideale. 

Per guidare gli altri e trascinarli, non occorre forse partecipare in prima persona, e con convinzione?   Osiamo dunque mettere il dito sulla piaga dell'ordine monastico nel nostro tempo.  Quale rinnovamento di fervore possiamo sperare, fintanto che superiori e monaci cercheranno ogni occasione per andar fuori di monastero e daranno l'impressione di sottrarsi alle esigenze della loro vocazione?  

I monaci, come tutti sanno, son tenuti a vivere in clausura, lontano dal mondo, occupati nell'Officio Divino, nella preghiera e nel lavoro manuale.  E se sono legati a questi obblighi, si suppone anche, tanto la cosa è evidente, che essi li amino sinceramente, e siano pronti a difenderli gelosamente.  Ora, ecco che le loro guide, approfittando del loro titolo, corrono fuori monastero ad ogni occasione, con una sollecitudine di indubbio significato.   Come, infatti, potrebbero meglio dimostrare che le loro preferenze non vanno dalla parte della clausura, della separazione dal mondo, dell'Officio Divino, e del resto?  Consciamente o inconsciamente dimostrato tutto questo, si penserà allora che essi in sèguito saranno perfettamente efficaci per far amare, dai loro subalterni, la clausura, la separazione dal mondo, l'Officio Divino, l'orazione, e il resto?  Si possono certo sperare dei miracoli, ma questi potranno avvenire in condizioni del genere?  Ci furono delle epoche durante le quali Monsignor Abbate di Citeaux si occupava principalmente dei suoi cavalli da sella e della sua carrozza;  vengono forse ricordate come età dell'oro della vita contemplativa?  Fintanto che i Superiori non si faranno un dovere di non lasciare le loro mura, l'ordine monastico vivrà in un regime di contraddizione.  Mi occorre, certo, un vero distacco per scrivere quest'ultima frase, perché so bene che essa basterebbe per far gettare nel cestino tutto questo scritto, che mi è costato tanta fatica. 

Dove trovare l' Abbate che, nel nostro tempo, sarà capace di creare una nuova maniera di gestire gli aspetti esteriori della sua carica?  Quale Abbate avrà sufficiente spirito critico per permettersi una nobile indipendenza?  Indipendenza riguardo agli "obblighi d'uscire, impossibili da eludere", i quali non sono altro, in genere, che convenzioni, e i cui risultati, anch'essi convenzionali, sono così spesso negativi.  Il rifiuto puro e semplice di uscire di casa sarebbe mancanza di realismo, imprudenza o singolarità?  In ogni caso, una simile singolarità non farebbe altro che risuscitare il modello, particolarmente riuscito, mostrato dai nostri santi Abbati Roberto, Alberico e Stefano.  Per ogni uomo, e anche per ogni monaco, la cosa più difficile durante la vita quaggiù, su questa terra, è di occuparsi a lungo del nostro grande Dio.  Perciò il Capo non può dire alla sua truppa:  "Io devo uscire; la cosa essenziale fatela senza di me".  Sempre per questa ragione, quando è momentaneamente allontanato dai suoi, il Capo dovrebbe essere assillato da questa preoccupazione:  "Se io non sono in mezzo alle mie truppe, per compiere con esse la parte più difficile del nostro mestiere, come la faranno loro?".   Questa è la verità della situazione. 

Dom Chautard viaggiava molto, perché trascinato fuori da una incredibile rete di responsabilità.  Un certo anno era stato delegato per una visita all'abbazia di Timadeuc, in Bretagna.  Ora, in quegli stessi giorni, si celebrava la "grande patrona" dei Brètoni, a Sant'Anna di Auray.  Cedendo alle insistenze reiterate del Padre Abbate di Timadeuc, Dom Chautard si lasciò trascinare a questa celebrazione.  Dopo la cerimonia ci fu un pranzo che riuniva tutti i vescovi, prelati, canonici e preti partecipanti.  Alla fine del pranzo Dom Chautard fu pregato di dire due parole di circostanza.  Egli quindi si alzò, e disse così: "Una volta mettevo in dubbio la leggenda secondo cui la grande Sant'Anna sarebbe venuta in Bretagna.  Oggi non ho più alcun dubbio;   ciò che mi ha convertito è che ella mi è apparsa durante questa magnifica cerimonia.  Sì, di persona, ella mi è apparsa per dirmi questo: « Io sono molto commossa per l'onore che mi hai fatto, unendoti ai miei devoti.  Tuttavia, tu sei monaco, e poiché sei monaco mi avresti meglio onorato, e comunque avresti fatto meglio, restando buono buono fra le mura del tuo monastero» ".  

L'uditorio, composto in gran parte da Brètoni, dovette apprezzare questo discorsetto;  i Brètoni infatti, essendo uomini di mare, sanno tutti che, sotto nessun pretesto, un capitano di vascello mai deve lasciare la nave.  Dom Chautard poteva così dare a se stesso, per di più in pubblico, una lezione simile;  in verità, se dovette viaggiare molto, fu sempre molto leale, e non si permise mai di prolungare il viaggio, né per un riposo, né per una curiosità!  E per paura di prender gusto a queste uscite, si ingegnò sempre di rendersele scomode, sia pure con discrezione. 

Penso di non dover insistere oltre.  D'altra parte, chi mai presterà qualche attenzione alle mie riflessioni e  testimonianze?  Cosa diventano degli scritti come questo, seme portato via dal vento?  Chi mi leggerà?  Magari soltanto e fra molto tempo, in qualche monastero dell'Africa, qualche buon fratello portinaio, che le mie riflessioni di questo capitolo riguardano d'altronde ben poco.  E immagino che costui, per lo meno, mi leggerà con una comprensiva gioia e che troverà, nella mia debole testimonianza, qualche nota in accordo con il suo ideale. 

Alla fine di questo capitolo non sarà il caso di ripetere ciò che abbiamo scritto fin dalla prima pagina:  "Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur"  [ciò che si riceve, lo si riceve secondo le proprie capacità di ricevere] ?

Caro Padre, la immagino - idea assolutamente gratuita - superiore di un monastero, mentre esercita questa carica da dieci o quindici anni, o anche di più.  Ciò supposto:  se, dopo questi anni di superiorato, lei osa, davanti alla sua comunità, far leggere il presente capitolo di questo scritto, senza timore che fra i suoi religiosi ci siano ironiche strizzatine d'occhi né sorrisi d'intesa, allora lei potrà rallegrarsi di aver ritrovato, per suo onore, buona parte di quello spirito che appartenne a san Benedetto. 

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al di là della Santa Regola

Per questo ultimo capitolo, devo andare a cercare molto in alto l'argomento, perché potrebbero essere molto vive le obiezioni, o più esattamente, le scappatoie.  Andiamo dunque a fare un giro in filosofia. 

Un filosofo che spesso mi dà grandi soddisfazioni, Etienne Gilson, esaminando i progressi realizzati lungo i secoli nella riflessione degli uomini, osserva che, sui temi essenziali, le tappe del progresso sono poche, anzi pochissime.  Egli prende come esempio la nozione di "essere".  Eccola dapprima espressa nel testo dell'Esodo:  "Io sono Colui che è" (Es. 3,14). In questa prima formula, la nozione di essere (cioè il senso della parola "è") è rimasta a lungo implicita e imprecisata.  Dopo secoli, con sant'Agostino questa nozione di "essere" si precisa, e il senso della formula dell'Esodo diventa allora:  "Io sono l'immutabile".   Progresso nel pensiero;  si è saliti di un gradino.  Otto secoli dopo sant'Agostino, san Tommaso d'Aquino spiega questo stesso testo dell'Esodo nel modo seguente: "Io sono Colui la cui natura è di esistere".  Nuova tappa, altro gradino.  E qui ci si chiede:  c'è ancora un progresso possibile, un gradino più alto al quale il pensiero razionale possa giungere, analizzando la nozione di "essere"?  Sta di fatto che, dopo san Tommaso, non lo si è trovato.  Da questo esempio Gilson stabilisce la legge seguente: "Più (uno o) vari progressi ci introducono nello spessore del loro oggetto, più un ulteriore progresso diventa improbabile" (5). 

Ogni termine di questo assioma ha un significato pregnante: dei pensieri, dei princìpi, dei consigli, delle regole "che introducono nello spessore del loro oggetto" hanno, come conseguenza, di rendere "improbabile ogni progresso ulteriore" dopo di loro.   Occorre essere specialisti in filosofia tomista per cogliere la necessità di questa legge?  Spero di no, perché, riguardo alle cose che mi rimangono da scrivere, vorrei convincere ogni lettore. 

Tutto ciò che concerne la perfezione monastica non lo si trova dettagliato nella santa Regola.  San Benedetto stesso lo dichiara (RB.73) [Tutto il capitolo 73, l'ultimo della Regola, appunto intitolato: "Non ogni norma di giustizia è stabilita in questa Regola"].  Semplicità del genio!  San Benedetto ha voluto fondare una scuola del servizio di Dio, ma egli la dichiara scuola elementare.  E gli sembra normale che altri maestri vengano ad aggiungere a questa scuola, lungo i secoli, qualche corso supplementare.  Questo, senza dubbio, per aumentare la fiducia dei suoi discepoli, e certamente non per eccitare il prurito degli instabili. 

Di fatto, lo sviluppo della storia ha preso atto del permesso dato da san Benedetto, e senza dubbio ha soddisfatto la sua aspettativa, le sue attese.  Infatti la sua opera ha ricevuto certi superamenti, che è doveroso e istruttivo riconoscere come superamenti, e farne l'inventario.  Essi sono:  una vita interiore orientata verso la Presenza reale eucaristica, una devozione mariana preminente, una preghiera di supplenza esplicita e sostenuta;  in un altro ordine di valori:  l'organizzazione delle comunità in coristi e conversi.  Ecco altrettanti elementi di cui la santa Regola non dice niente, che sono quindi dei superamenti. 

Su un altro piano, notiamo che san Benedetto sembra aver dimenticato di dare un nome al genere di vita che egli istituiva; ha dimenticato di dire che egli propone ai suoi discepoli una vita contemplativa.  Infatti la nozione di vita contemplativa è stata precisata un po' alla volta, molto più tardi;  è la Chiesa stessa, non san Benedetto, che oggi offre ai Cistercensi questo appellativo, per precisare la parte loro riservata, per giustificare le loro leggi particolari, e per qualificare il loro ideale.  Ma, ancora una volta, niente di tutto questo si trova nella santa Regola.  E tuttavia questi superamenti, questi "progressi che introducono nello spessore del loro oggetto" sono da lungo tempo incorporati al nostro ideale cistercense. 

Dicendo: "al di là della Regola" io non intendo quindi la vita mistica, tappa della più profonda unione con il nostro grande Dio;  infatti questa non si trova al di là, ma anzi (come sostegno ad una vita di grande fedeltà) essa è già nella prospettiva stessa della santa Regola.  Restano dunque in tutto cinque sviluppi, secondo i quali la Regola e la spiritualità di san Benedetto hanno veramente avuto un'evoluzione e un progresso, ossia:  il culto del Santissimo Sacramento,  la devozione mariana,  la supplenza,  la vocazione dei fratelli conversi (6), la qualifica come vita contemplativa. 

Ora, se questi cinque superamenti sono essenziali, se ci "introducono nello spessore dell'oggetto", cioè nella verità del nostro ideale, si imporrà allora la conseguenza (secondo la legge proposta da Gilson) che un nuovo superamento, da raggiungere per esempio con delle ricerche attuali, "diventa improbabile"?  

Ecco il vero problema.  Poiché la Regola di san Benedetto, e poi i cinque superamenti che abbiamo riconosciuto, hanno toccato l'essenza del nostro ideale, nuovi sviluppi, da cercare ancora, devono esserlo "nello spessore del nostro oggetto",  ossia nella linea del nostro ideale.  Se noi dobbiamo metterci alla ricerca di novità o tener conto di quelle che ci vengono offerte senza che noi le domandiamo, dobbiamo farlo con la massima prudenza e circospezione.  D'altra parte, chi vuol vivere seriamente la vita monastica, si trova già pienamente appagato dai cinque superamenti incorporati alla santa Regola, e non andrà a mettere la sua speranza in progressi di nessuna consistenza.  Qui, aggiungere un po' di blu o di verde;  là, togliere un po' di giallo;  ritoccare tutto e dipendere da un nonnulla;  contestare e distruggere, invece di lavorare e di mettere in pratica;  inventare e piroettare;  apparire e subito scomparire nel sacco del prestidigitatore.  La via dell'autentico progresso ci imporrà - a noi monaci - un simile flagello?

La realizzazione dei cinque superamenti, di cui abbiamo fatto l'inventario, ha presentato, per ognuno di essi, delle caratteristiche da prendere in considerazione:  essi non hanno indebolito la santa Regola in nessuna delle sue parti;  al contrario hanno contribuito all'arricchimento spirituale di essa, e hanno giustificato la saggezza della sua ispirazione iniziale.  Inoltre, queste acquisizioni sono avvenute lentamente, con l'azione pacifica e modesta di tantissimi monaci, i quali prima di tutto si sono sentiti a loro agio nella loro vocazione così come essi l'avevano ricevuta, e poi un po' alla volta hanno seguìto una forza d'attrazione spirituale in una direzione costante.  Perciò questi progressi sono stati realizzati senza contestazione, e sono stati conservati senza discordie né cedimenti.  Questi sono criteri importanti di autenticità, poiché la vita con Dio non può progredire se non in un ambiente stabile e senza sorprese.  Se devono essere presi in considerazione altri superamenti, vanno presi in questo stesso modo. 

 

Dopo queste constatazioni siamo in grado di giudicare i miracolosi progressi, sperimentati qua e là, e che costituiscono tutta la speranza degli impazienti, ma che non avvengono, ahimè!, "secondo lo spessore dell'oggetto", come dice Gilson.   Di conseguenza, prima di tutto essi non conducono a niente;  in secondo luogo (ancora ahimè!) "essi non rendono improbabili dei progressi ulteriori", cosicché ulteriormente e indefinitamente ci verranno proposti altri progressi, altrettanto vani.   La maggior parte dei cosiddetti progressi, d'altra parte, sono solo copie negative di elementi positivi che la santa Regola mette da sempre a nostra disposizione. 

Per esempio, gli ultimi esperimenti che dovrebbero ravvivare la vita contemplativa indebolita si chiamano:  "formazione permanente", "riconversione".  Nel mondo simili imprese forse sono giustificate, perché i professionisti devono tenersi al corrente dei continui cambiamenti nel lavoro, nei materiali, nei regolamenti sociali.  Ma introdurre questi metodi, o altri simili, tra i monaci, per rivedere il loro ideale soprannaturale oppure i mezzi per raggiungerlo, è ignorare gli strumenti speciali e adattissimi, che noi già possediamo.   Invece della "formazione permanente" o della "riconversione" noi abbiamo, da tanto tempo, la "lectio divina" personale, controllata da un padre spirituale.  Lo stesso vale per le altre novità.

Che nei monasteri si adottino l'elettricità, i trattori, le cure mediche, e molte altre cose, è naturale e non comporta alcun processo di decadimento.  Invece, che si introducano le "mises en commun" e le discussioni, che si rendano più frequenti le uscite dal monastero, che si generalizzi l'uso delle stanze individuali; o anche, semplicemente, che si lasci radicare l'abitudine per esempio della trasandatezza nel vestire o del darsi sistematicamente del "tu" (giudicata a torto senza conseguenze, mentre invece fa abbassare di un semitono la qualità dei rapporti), in tutti questi casi e in molti altri la prudenza ci dovrebbe ammonire: san Benedetto qui non c'è! 

Per quanto riguarda i cinque superamenti che abbiamo riconosciuti come autentici, un errore consisterebbe nel crederli acquisiti e posseduti automaticamente.  Certamente no.  Sono acquisizione della famiglia cistercense solo perché sono acquisizione di certuni dei suoi membri.  Ora, questi muoiono uno dopo l'altro;  bisogna dunque che nuovi membri facciano a loro volta le medesime acquisizioni.  Non ci sarà mai, perciò, dell'immobilismo.  Rimarrà sempre, per il discepolo di san Benedetto, da raccogliere l'eredità e farla fruttare;  ma, ancora una volta, "secondo lo spessore del nostro oggetto".

Come si potrebbe immaginare, oggi, un monaco amico di Dio, che non sia attirato dalla Presenza reale;   che non sia geloso della protezione della Santa Vergine Maria, Madre di Dio; che non sia preoccupato di offrire  il suo contributo al ministero di supplenza?  Lineamenti come questi, nel ritratto del monaco moderno, non tradiscono (anzi!) l'intenzione del nostro Padre san Benedetto.  Abbiamo l'essenziale;  facciamone l'affare della nostra vita.  Non cerchiamo dei "progressi ulteriori improbabili", delle chimere inutili e costose. 

Che sia stato necessario rivedere, per togliergli un po' di polvere, il nostro libro degli "Usi" (questo codice minuzioso e complesso di prescrizioni e di usanze che regolava, spesso fin nei dettagli, la nostra vita monastica e i nostri comportamenti) questo era evidente.  Eppure, queste prescrizioni esprimevano così bene, e difendevano così bene, la nobile dignità della nostra fede, mentre la fede elevava il significato del gesto e ispirava la religione, e la religione fortificava la fede.  Tempi beati, durante i quali si osava imporre la dignità, e nei quali la costrizione, accettata religiosamente, conduceva alla qualità.  Da quando queste antiche prescrizioni non sono più prese alla lettera, che cosa si fa per onorare Nostro Signore presente nel SS. Sacramento, individualmente e comunitariamente?.   Ognuno improvvisa qualche gesto, scendendo un po' alla volta fino a un minimo, davvero povero e insignificante. 

Altro superamento della santa Regola:  il culto mariano.  Non c'è forse una forza soprannaturale in questo Rosario, che fu per tanti monaci, spesso uomini energici e appassionati, durante i lunghi anni delle loro fatiche e del loro cammino, l'occupazione della loro mente e del loro cuore, il mezzo della loro perseveranza e della loro gioia?  Uomini che non si accontentavano di parole, e che si sono purificati con questa preghiera vocale.  Chiostri cistercensi, giardini della Vergine Maria, dove fioriscono innumerevoli le "Ave, Maria": in onore della Santa Madre di Dio, e in supplenza (sollievo per gli afflitti, per gli smarriti). 

Monaci del genere hanno talmente ripetuto: "Santa Maria, Madre di Dio", che hanno finito col penetrare, col fare loro, il mistero dei rapporti del Cielo con l'uomo.  Hanno tanto spesso implorato: "Prega per noi, poveri peccatori" che il mistero dell'uomo salvato è diventato loro dominio, perpetua speranza e consolazione. 

C'è un "al di là della santa Regola"?  Sì, certo, ce n'è uno, autentico, vero, fecondo, sempre lo stesso:  quello che realizza un progresso, introducendoci davvero e di più "nello spessore dell'oggetto".  

È a motivo del valore della santa Regola, di questo patrimonio che essa rappresenta, non a motivo di ciò che noi potremmo sostituirvi, che la Chiesa ci affida una missione ecclesiale.  È a motivo di questo patrimonio e della sua ricchezza, che dei giovani vengono a raggiungere i nostri ranghi, gustando una solida eredità.  Ma come tutti sanno, è altrettanto difficile gestire un patrimonio, quanto l'acquisirlo. Infatti, gestire significa ben più che il semplice conservare.

 

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(5) "Quanto più (uno o) vari progressi ci fanno penetrare nello spessore del loro oggetto, tanto più un ulteriore progresso diventa improbabile" in Etienne Gilson: "Le philosophe et la théologie", 1960.  

 

(6) Questa autentica forma di vita monastica è stata ufficialmente soppressa - qualche hanno fa - nel nostro Ordine, ma sarà la stessa evidenza della sua necessità a reintrodurla, con i dovuti adattamenti.

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finale

Caro Padre, destinatario di queste pagine, lei penserà senza dubbio che esse sono fortemente segnate dalle condizioni incontrate durante la tappa che io stesso ho per corso.  Come potrebbe essere diversamente?  In compenso lei ha qui una testimonianza sincera, e concreta.  Verso la mia barca lei ha lanciato il suo ormeggio, ed ecco, esso non si è rivelato troppo corto. 

Io le ho raccontato ciò che i monaci della mia generazione hanno ricevuto dalla generazione precedente. Può darsi che le mani dei miei contemporanei si siano rivelate troppo deboli, e che abbiano lasciato impoverire l'eredità; che in qualcosa ci sia stato un cedimento.  Che cosa ci vuole per un rinnovamento?  CHE  SAN  BENEDETTO  SIA  NUOVAMENTE  SEGUÌTO.   In tal caso, lei e quelli della sua generazione dovrete ricomin­ciare ciò che è stato interrotto, e rifare ciò che è stato disfatto.  Non sarà la prima volta, nella lunga storia del monachesimo. 

Bisognerebbe allora intraprendere questo lavoro con la forza e la mitezza che vengono da una completa fiducia nel nostro beato Padre, che fu e rimane Benedetto da Norcia, cercatore di Dio e saggio fra i saggi, psicologo in anticipo sul suo tempo e sul nostro, maestro di vita spirituale e santo canonizzato dalla Chiesa romana universale.  Un simile palmarès dovrebbe garantirgli un'autorità incontestata. 

Quanti padri e fratelli nostri ho visto morire, nessuno dei quali si è pentito di esser stato fedele alla santa Regola.  Anche giovani di "coro", tra i morti.  Non si sono stancati del riparo rude e freddo che essi hanno trovato dietro la cinta fortificata; hanno compiuto la loro veglia sul cammino di ronda; non sono venuti meno alla loro intenzione principale.  Che importanza hanno le miserie in margine al programma, se il programma è stato attuato? 

Mentre stavo dando gli ultimi ritocchi a questo scritto, lei è stato eletto Abbate del monastero.  Non ho ritenuto che a causa della sua nuova situazione dovessi modificare sostanzialmente ciò che ho scritto.  Le sue prospettive senza dubbio ben presto non saranno più quelle di un monaco che vive nei ranghi; lei perderà più o meno il contatto con "queste grandi correnti genuine che solo la truppa rivela", come scriveva Lyautey (7). Questo scritto le parrà pieno di incongrui ritorni al passato, e di mire imprudenti sul futuro. Lei potrà esser tentato di dimenticarlo per sempre in un cassetto.  Io non me ne stupirei più di tanto, sicuro che un po' alla volta lei mi raggiungerà ugualmente su tutti i punti, nella misura in cui lei guarderà, a sua volta, questa nobile istituzione monastica, come io ho potuto farlo qui, alla luce della sera.  

 

Padre Jérôme

 

2 febbraio 1984, Abbazia di Sept-Fons

 

 

(7) "Lyautey", par André Maurois, Hachette, PARIS 1939, p.65.

 

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