card.
Joseph Ratzinger
L'IDEA DI CHIESA
La
facciata e il mistero
Crisi, dunque. Ma dov'è, a suo parere, il principale punto di
rottura, la crepa che, allargandosi, minaccia la stabilità dell'intero
edificio della fede cattolica?
Per il cardinal Ratzinger non ci sono dubbi: l'allarme va
focalizzato innanzitutto sulla crisi del concetto di Chiesa, sulla
ecclesiologia: « Qui è l'origine di buona
parte degli equivoci o dei veri e propri errori che insidiano sia la
teologia che l'opinione comune cattolica ».
Spiega: « La mia impressione è che tacitamente
si vada perdendo il senso autenticamente cattolico della realtà
"Chiesa" senza che lo si respinga espressamente. Molti non credono
più che si tratti di una realtà voluta dal Signore stesso. Anche presso
alcuni teologi, la Chiesa
appare come una costruzione umana, uno strumento creato da noi e che quindi
noi stessi possiamo riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del
momento. Si è cioè insinuata in molti modi nel pensiero cattolico, e perfino
nella teologia cattolica, una concezione di Chiesa che non si può neppure
chiamare protestante, in senso "classico". Alcune idee
ecclesiologiche correnti vanno collegate piuttosto al modello di certe
"chiese libere" del Nord America, dove si rifugiavano i credenti
per sfuggire al modello oppressivo di "chiesa di Stato" prodotto in
Europa dalla Riforma. Quei profughi, non credendo più nella Chiesa come
voluta da Cristo e volendo nello stesso tempo sfuggire alla chiesa di stato,
creavano la loro chiesa, un'organizzazione strutturata secondo i loro
bisogni ».
Per i cattolici, invece?
«
Per i cattolici – spiega – la Chiesa è composta sì da
uomini che ne organizzano il volto esterno; ma, dietro di questo, le
strutture fondamentali sono volute da Dio stesso e quindi sono intangibili.
Dietro la facciata umana sta il mistero di una realtà sovrumana sulla
quale il riformatore, il sociologo, l'organizzatore non hanno alcuna autorità
per intervenire. Se la Chiesa
è vista invece come una costruzione umana, come un nostro artifizio, anche i
contenuti della fede finiscono per diventare arbitrari: la fede, infatti,
non ha più uno strumento autentico, garantito, attraverso il quale
esprimersi. Così, senza una visione che sia anche soprannaturale e non
solo sociologica del mistero della Chiesa, la stessa cristologia perde
il suo riferimento con il Divino: a una struttura puramente umana finisce col
corrispondere un progetto umano. Il Vangelo diventa il progetto-Gesù, il
progetto liberazione sociale, o altri progetti solo storici, immanenti, che
possono sembrare anche religiosi in apparenza, ma sono ateistici nella
sostanza ».
Durante il Vaticano II si è molto insistito – negli interventi di
alcuni vescovi, nelle relazioni dei loro consulenti teologici, ma anche nei
documenti finali – sul concetto di Chiesa come « popolo di Dio ». Una
concezione che è poi sembrata dominante nelle ecclesiologie postconciliari.
«
È vero, c'è stata e c'è questa insistenza, la quale, però, nei testi
conciliari, è in equilibrio con altre che la completano; un equilibrio che è
andato perduto presso molti teologi. Eppure, a differenza di quanto pensano
costoro, in questo modo si rischia di tornare indietro piuttosto che andare
avanti. Qui c'è addirittura il pericolo di abbandonare il Nuovo Testamento
per ritornare nell' Antico. "Popolo di Dio" è infatti, per la Scrittura, Israele nel
suo rapporto di preghiera e di fedeltà con il Signore. Ma limitarsi
unicamente a quell'espressione per definire la Chiesa, significa non
indicare del tutto la concezione che ne ha il Nuovo Testamento. Qui,
infatti, "popolo di Dio" rinvia sempre all'elemento veterotestamentario
della Chiesa, alla sua continuità con Israele. Ma la Chiesa riceve la sua
connotazione neotestamentaria più evidente nel concetto di "Corpo di
Cristo". Si è Chiesa e si entra in essa non attraverso appartenenze
sociologiche, bensì attraverso l'inserzione nel corpo stesso del Signore, per
mezzo del battesimo e della eucaristia. Dietro il concetto oggi così
insistito di Chiesa come solo "popolo di Dio" stanno suggestioni di
ecclesiologie le quali tornano di fatto all'Antico Testamento; e anche, forse,
suggestioni politiche, partitiche, collettivistiche. In realtà, non c'è
concetto davvero neotestamentario, cattolico, di Chiesa senza rapporto
diretto e vitale non solo con la sociologia ma prima di tutto con la
cristologia. La Chiesa
non si esaurisce nel "collettivo" dei credenti: essendo il
"Corpo di Cristo" è ben di più della semplice somma dei suoi membri
».
Per il Prefetto, la gravità
della situazione è accentuata dal fatto che – su un punto così vitale come
l'ecclesiologia – non sembra possibile intervenire in modo risolutivo
mediante documenti. Nonostante anche questi non siano mancati, a suo avviso
sarebbe necessario un lavoro in profondità: « Bisogna ricreare un clima
autenticamente cattolico, ritrovare il senso della Chiesa come Chiesa
del Signore, come spazio della reale presenza di Dio nel mondo. Quel mistero
di cui parla il Vaticano II quando scrive quelle parole terribilmente
impegnative e che pure corrispondono a tutta la tradizione cattolica: "La Chiesa, cioè il regno di
Cristo già presente in mistero" (Lumen
Gentium, n. 3) ».
« Non è nostra, è Sua »
A conferma della differenza "qualitativa" della Chiesa rispetto a
qualunque organizzazione umana, ricorda che « solo la Chiesa,
in questo mondo, supera anche il limite invalicabile per eccellenza
dell'uomo: il confine della morte. Vivi o morti che siano, i membri della
Chiesa vivono congiunti nella stessa vita che promana dall'inserzione di
tutti nello stesso Corpo di Cristo ».
È la realtà, osservo, che la teologia cattolica ha sempre chiamato communio sanctorum, la comunione dei "santi"; dove
"santi" sono tutti i battezzati.
«
Certo – dice –. Ma non bisogna
dimenticare che l'espressione latina non significa solo l'unione dei membri
della Chiesa, vivi o defunti che siano. Communio sanctorum significa
anche avere in comune le "cose sante", cioè la grazia dei sacramenti
che sgorgano dal Cristo morto e risorto. È anche questo legame misterioso
eppure reale, è questa unione nella Vita che fa sì che la Chiesa non sia la nostra
Chiesa, della quale potremmo disporre a piacimento; è, invece, la Sua Chiesa.
Tutto ciò che è solo nostra Chiesa non è Chiesa nel senso profondo, appartiene
al suo aspetto umano, dunque accessorio, transitorio ».
La dimenticanza o il rifiuto attuali di questo concetto cattolico
di Chiesa, chiedo, comporta conseguenze anche nel rapporto con la gerarchia ecclesiale?
«
Certo. E tra le più gravi. È qui l'origine della caduta del concetto
autentico di "obbedienza"; la quale, secondo alcuni, non sarebbe
neppur più una virtù cristiana, ma un retaggio di un passato autoritario,
dogmatico, quindi da superare. Se la
Chiesa, infatti, è la nostra Chiesa, se la Chiesa siamo soltanto
noi, se le sue strutture non sono quelle volute da Cristo, allora non si
concepisce più l'esistenza di una gerarchia come servizio ai battezzati
stabilita dal Signore stesso. Si rifiuta il concetto di un'autorità voluta da
Dio, un'autorità che ha la sua legittimazione in Dio e non – come avviene
nelle strutture politiche – nel consenso della maggioranza dei membri
dell'organizzazione. Ma la
Chiesa di Cristo non è un partito, non è un'associazione,
non è un club: la sua struttura profonda e ineliminabile non è democratica
ma sacramentale, dunque gerarchica; perché la gerarchia
basata sulla successione apostolica è condizione indispensabile per
raggiungere la forza, la realtà del sacramento. L'autorità, qui, non si basa su
votazioni a maggioranza; si basa sull'autorità del Cristo stesso, che ha
voluto parteciparla a uomini che fossero suoi rappresentanti sino al suo
ritorno definitivo. Solo rifacendosi a questa visione sarà possibile
riscoprire la necessità e la fecondità cattolica di Chiesa dell'obbedienza
alle sue legittime gerarchie ».
Per
una vera riforma
Eppure, dico, accanto all'espressione tradizionale communio sanctorum (in
quel significato pieno sottolineato),
c'è un'altra frase latina che ha sempre avuto diritto di cittadinanza tra i
cattolici: Ecclesia semper
reformanda, la Chiesa è sempre bisognosa di riforma. Il
Concilio è stato chiaro al proposito: « Benché la Chiesa, per la virtù
dello Spirito Santo, sia rimasta sempre Sposa fedele del suo Signore e non
abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, essa tuttavia non
ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nella lunga
serie dei secoli passati, non sono mancati quelli che non furono fedeli allo
Spirito di Dio. E sa bene, la
Chiesa, quanto distanti siano tra loro il messaggio che
essa reca e l'umana debolezza di coloro cui è affidato il Vangelo. Qualunque
sia il giudizio che la storia dà di tali difetti, noi dobbiamo esserne
consapevoli e combatterli con forza e con coraggio, perché non ne abbia danno
la diffusione del Vangelo » (Gaudium
et Spes, n. 43).
Pur rispettandone il mistero, non siamo dunque chiamati a uno
sforzo di cambiamento della Chiesa?
«
Certo – replica – nelle sue
strutture umane la Chiesa
è semper reformanda. Bisogna però intendersi in che modo e sino a che
punto. Il testo citato del Vaticano II ci dà già una indicazione ben precisa,
parlando della "fedeltà della Sposa di Cristo" che non è messa in
questione dalle infedeltà dei suoi membri. Ma, per spiegarmi ancor meglio, mi
rifarò alla formula latina che la liturgia romana faceva pronunciare al
celebrante in ogni messa, al "segno di pace" che precede la
comunione. Diceva dunque quella preghiera: "Domine Jesu Christe [...],
ne respicias peccata mea, sed fidem Ecclesiae tuae"; cioè:
"Signore Gesù Cristo, non guardare ai miei peccati, ma alla fede
della tua Chiesa". Adesso, in molte traduzioni (ma anche nel
testo latino rinnovato) dell'ordinario della messa, la formula è stata
portata dall'io al noi: "Non guardare ai nostri peccati".
Un simile spostamento sembra irrilevante ed è invece di grande rilievo».
Perché annettere tanta importanza al passaggio dall'io al noi?
«
Perché è essenziale che l'invocazione di essere perdonati sia pronunciata in
prima persona: è un richiamo a quella necessità di ammissione personale della
propria colpa, a quella indispensabilità della conversione personale che
oggi è invece molto spesso nascosta nella massa anonima del "noi",
del gruppo, del "sistema", dell'umanità; dove tutti peccano e,
dunque, alla fine nessuno sembra avere peccato. In questo modo si dissolve il
senso della responsabilità, delle colpe di ciascuno. Naturalmente si può
intendere in maniera corretta la nuova versione del testo, poiché nel
peccato si intrecciano sempre l'io e il noi. L'importante è che, nella
nuova accentuazione del noi, l'io non scompaia ».
Questo punto, osservo, è importante, varrà la pena di ritornarci sopra; ma torniamo per
ora dove eravamo: al legame tra l'assioma Ecclesia semper reformanda e l'invocazione a Cristo di perdono personale.
«
D'accordo, torniamo a quella preghiera che la sapienza liturgica inseriva al
momento più solenne della messa, quello che precede l'unione fisica, intima,
con il Cristo fattosi pane e vino. La Chiesa presumeva che chiunque celebrasse
l'eucaristia avesse bisogno di dire: "io ho peccato; non
guardare, Signore, ai miei peccati". Era l'invocazione obbligatoria
di ogni sacerdote: i vescovi, il Papa stesso alla pari dell'ultimo prete
dovevano pronunciarla nella loro messa quotidiana. E anche i laici, tutti gli
altri membri della Chiesa, erano chiamati a unirsi a quel riconoscimento di
colpa. Dunque tutti nella Chiesa, senza alcuna eccezione, dovevano
confessarsi peccatori, invocare il perdono, mettersi quindi sulla via della
loro vera riforma. Ma questo non significava affatto che fosse peccatrice
anche la Chiesa
in quanto tale. La Chiesa
– lo abbiamo visto – è una realtà che supera, misteriosamente e insieme
infinitamente, la somma dei suoi membri. Infatti, per ottenere il perdono
del Cristo, si opponeva il mio peccato alla fede della Sua Chiesa ».
E oggi?
«
Oggi questo sembra dimenticato da molti teologi, da molti ecclesiastici, da
molti laici. Non c'è stato solo il passaggio dall'io al noi, dalla responsabilità
personale a quella collettiva. Si ha addirittura l'impressione che alcuni,
magari inconsciamente, rovescino l'invocazione, intendendola come: "non
guardare ai peccati della Chiesa ma alla mia fede"... Se
davvero questo avviene le conseguenze sono gravi: le colpe dei singoli
diventano le colpe della Chiesa e la fede è ridotta a un fatto personale, al mio
modo di comprendere e di riconoscere Dio e le sue richieste. Temo
proprio che questo sia oggi un modo molto diffuso di sentire e di ragionare:
è un segno ulteriore di quanto la comune coscienza cattolica si sia
allontanata in molti punti dalla retta concezione della Chiesa ».
Che fare, dunque?
«
Dobbiamo tornare a dire al Signore: "Noi pecchiamo, ma non pecca la Chiesa che è Tua ed è portatrice
di fede". La fede è la risposta della Chiesa a Cristo; essa è Chiesa
nella misura in cui è atto di fede. La quale fede non è un atto individuale,
solitario, una risposta del singolo. Fede significa credere insieme, con
tutta la Chiesa
».
Dove possono indirizzarsi, dunque, quelle "riforme" che pur
siamo sempre chiamati ad apportare alla nostra comunità di credenti che
vivono nella storia?
«
Dobbiamo avere sempre presente che la
Chiesa non è nostra ma sua. Dunque, le
"riforme", i "rinnovamenti" – pur sempre doverosi – non
possono risolversi in un nostro darci da fare zelante per erigere nuove,
sofisticate strutture. Il massimo che può risultare da un lavoro del genere è
una Chiesa "nostra", a nostra misura, che può magari essere
interessante ma che, da sola, non è per questo la Chiesa vera, quella che
ci sorregge con la fede e ci dà la vita col sacramento. Voglio dire che ciò
che noi possiamo fare è infinitamente inferiore a Colui che fa. Dunque,
"riforma" vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove
facciate, ma (al contrario di quanto pensano certe ecclesiologie)
"riforma" vera è darci da fare per far sparire nella maggiore
misura possibile ciò che è nostro, così che meglio appaia ciò che è Suo, del
Cristo. È una verità che ben conobbero i santi: i quali, infatti, riformarono
in profondo la Chiesa
non predisponendo piani per nuove strutture ma riformando se stessi. L'ho già
detto, ma non lo si ripeterà mai abbastanza: è di santità, non di management
che ha bisogno a Chiesa per rispondere ai bisogni dell'uomo ».
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