padre Bartolomeo Sorge S.J.

Il silenzio dei vescovi sull’Italia d’oggi

 


« Non c’è dubbio che alla base della Chiesa italiana vi sia un certo malessere per il silenzio dei vescovi sulla grave situazione del Paese ».

Si apre così l’editoriale del numero di marzo 2004 di Aggiornamenti Sociali, firmato dal direttore p. Bartolomeo Sorge

Vi sono alcuni « punti di sofferenza » (elencati ad esempio dall’on. Franco Monaco in un articolo sulla rivista Jesus) che rendono critica la situazione del Paese e su cui sarebbe auspicabile da parte dell’episcopato italiano non tanto un giudizio politico (che spetta al laicato), quanto una valutazione etica. 

Perché dunque questo silenzio? Chiederlo è non solo lecito ma risulta proficuo per suscitare quel soprassalto di coraggio evangelico di cui oggi ha bisogno tutta la Chiesa italiana, Pastori e laici insieme.

da: © aggiornamenti sociali - P.za San Fedele 4, 20121 Milano - www.aggiornamentisociali.it  


 

Non c’è dubbio che alla base della Chiesa italiana vi sia un certo malessere per il silenzio dei vescovi sulla grave situazione del Paese. Di quando in quando questo disagio è affiorato sulle pagine dei giornali, finché ultimamente è esploso anche sulla stampa cattolica. Nel numero di ottobre 2003 di Jesus, il mensile di cultura e attualità edito dai Periodici San Paolo, è apparsa una lettera aperta dell’on. Franco Monaco, già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana dal 1986 al 1992 e attualmente vice-capogruppo della Margherita alla Camera dei Deputati: «Cari vescovi, perché tanto silenzio sull’Italia?»(Jesus, 10 [2003] 6 s.).

Dando voce a uno stato d’animo diffuso, Franco Monaco evidenzia «cinque punti di sofferenza» che rendono critica la situazione attuale del Paese, ne rendono incerto il futuro e, proprio per questo, esigerebbero una chiara parola dei vescovi. Questi «punti» sono: il disprezzo aperto della legalità; il rischio di un conflitto senza sbocco tra istituzioni e parti sociali; il venir meno del ruolo europeista e di promozione della pace che l’Italia finora ha sempre svolto; l’egemonia del «pensiero unico» neoliberista, cioè di una visione puramente mercantile della politica; la concentrazione patologica dei mass media e dell’informazione in poche mani. Perché su questi punti i vescovi tacciono? Nessuno chiede loro di darne un giudizio politico, che spetta al laicato, ma una chiara valutazione etica. Ai vescovi si chiede cioè che illuminino le coscienze sia dei politici, sia dei fedeli affinché le riforme necessarie si compiano in modo responsabile, nel rispetto dei valori etici e del bene comune. Ciò è tanto più importante oggi, quando chi governa non cessa di ripetere che vuole «cambiare il Paese». Nulla da dire sul come?

Per comprendere il senso del dibattito, occorre chiarirne gli elementi principali: 1) il silenzio dei vescovi oggi; 2) i loro insegnamenti di ieri; 3) il ruolo del laicato.

 

1. Il silenzio dei vescovi oggi

Tutti sappiamo come, alla vigilia delle consultazioni elettorali, giungesse immancabile e puntuale il comunicato dei vescovi per ricordare ai cattolici il grave dovere di andare a votare, di votare «bene» e di votare «uniti». Gli interventi della CEI cominciarono a rarefarsi sotto i pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. In seguito si fecero sempre più radi e sfumati, a misura che cresceva di intensità e di visibilità il servizio apostolico di Giovanni Paolo II. Finché si finì col lasciare praticamente al Papa il compito di intervenire. Ciò apparve in modo evidente al Convegno ecclesiale di Loreto (1985), quando fu Giovanni Paolo II (e non i vescovi) a richiamare i cattolici italiani alla storia del Paese e a esortarli a rimanere fedeli all’«impegno unitario» in politica (cfr L’Osservatore Romano, 12 aprile 1985, n. 8). Dopo di allora, il Papa intervenne più volte sull’impegno sociale dei cattolici italiani, affrontando il tema perfino in una lettera scritta ad hoc ai vescovi («Le responsabilità dei cattolici di fronte alle sfide dell’attuale momento storico», in L’Osservatore Romano, 13 gennaio 1994).

Solamente nel 1995, in occasione del Convegno ecclesiale di Palermo, furono dette — ancora una volta dal Papa — le parole che molti avrebbero desiderato ascoltare dai vescovi qualche anno prima, quando l’unità dei cattolici nella DC già era divenuta anacronistica sia sul piano storico (a causa delle trasformazioni avvenute nel Paese), sia sul piano teologico (dopo le acquisizioni teologiche e pastorali del Concilio Vaticano II). «La Chiesa — disse Giovanni Paolo II a Palermo — non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o per l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica democrazia» («Allocuzione ai Convegnisti», in L’Osservatore Romano, 24 novembre 1995, n. 10). Con queste parole il Papa di per sé richiamò un principio generale, universalmente valido; tuttavia quel monito autorevole, rivolto direttamente alla Chiesa italiana dopo 50 anni di «collateralismo» con la DC, assumeva evidentemente un significato particolare. Si trattava, dunque, di applicare alla mutata situazione del Paese il principio generale enunciato dal Papa. A Palermo però nessuno ci provò. Ci si limitò a ripetere le sue parole, senza fare commenti.

Fu il card. Martini — qualche giorno dopo — a intervenire sul silenzio dei vescovi, richiamandosi appunto al monito del Papa. Il 6 dicembre 1995, nel discorso di sant’Ambrogio (C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare), disse testualmente: «la Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia». E il Cardinale indicò esplicitamente i principali pericoli che la democrazia oggi corre nel nostro Paese, di fronte ai quali — ribadì — i vescovi non possono tacere. La Chiesa — esemplificò il Cardinale — non può rimanere neutrale o muta nei confronti di una cultura politica che contesta la funzione dello Stato nella tutela dei più deboli; nei confronti di una logica decisionistica che cerca di estorcere il consenso per via plebiscitaria; dinanzi al diffondersi di un liberismo utilitaristico che fa del profitto, della efficienza e della competitività un fine, a cui subordina le ragioni della solidarietà; in presenza di una politica che si rifà a una logica conflittuale inaccettabile, secondo cui chi vince piglia tutto e chi perde è solo un nemico da eliminare (cfr Martini C. M., «Chiesa e comunità politica», in Aggiornamenti Sociali, 2 [1996] 170).

Quel discorso dell’Arcivescovo di Milano è un chiaro esempio di come, senza compromettersi in scelte di parte, estranee alla loro missione religiosa, i vescovi devono e possono intervenire a formare la coscienza dei fedeli, esprimendo un giudizio morale sui «punti di sofferenza» della democrazia nel nostro Paese. «Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio — concludeva il Cardinale — e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza. Non basta dire che non si è né l’uno né l’altro, per essere a posto; non è lecito pensare di poter scegliere indifferentemente, al momento opportuno, l’uno o l’altro a seconda dei vantaggi che vengono offerti. È questo un tempo in cui occorre aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle singole scelte politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella concezione dell’agire politico che esse implicano. Non è in gioco la libertà della Chiesa, è in gioco la libertà dell’uomo; non è in gioco il futuro della Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia» (ivi, 171).

Certo, giustamente i vescovi si preoccupano di mantenersi equidistanti da ogni schieramento politico, non solo perché ciò è richiesto dalla natura religiosa della loro missione, ma anche per evitare che il pluralismo dei cattolici, legittimo in politica, produca lacerazioni e divisioni nella vita della comunità ecclesiale. Tuttavia, la necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente «democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole scelte. Ora, le cose non stanno così. La coerenza dell’agire cristiano non riguarda soltanto il comportamento personale di fronte alle singole scelte; il cristiano dovrà anche interrogarsi sulla coerenza oggettiva di un progetto politico, preso nel suo insieme. Infatti, — disse Giovanni Paolo II a Palermo — non si può «ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede», né si può dare «una facile adesione a forze politiche o sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della Dottrina sociale della Chiesa» («Allocuzione ai Convegnisti», cit., 10).

Dunque, oggi, il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido l’ammonimento di san Gregorio Magno: come «un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto» (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30).

 

2. Gli insegnamenti di ieri

Mentre si avverte il peso del silenzio di oggi, è opportuno però richiamare i numerosi interventi passati della CEI sulla situazione italiana. Alcuni di essi, nonostante risalgano a vari anni fa, mantengono una straordinaria attualità. Perciò, bisogna riconoscere che il silenzio dei vescovi, in ogni caso, è relativo. Come non ricordare — per esempio — il documento del Consiglio Permanente della CEI: La Chiesa italiana e le prospettive del Paese (23 ottobre 1981), quello firmato dall’intero episcopato italiano su Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno (18 ottobre 1989) o il messaggio della Presidenza della CEI sulla Presenza unita dei cristiani nella vita sociale e politica (30 giugno 1993)?

Soprattutto appare di straordinaria attualità la Nota pastorale della Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace»: Educare alla legalità, del 4 ottobre 1991. Si direbbe scritta oggi. Dopo aver richiamato sommariamente le ragioni della crisi della politica italiana (n. 7), la Nota denuncia i pericoli che la democrazia corre nel nostro Paese, a motivo della perdita di tensione etica. Il primo rischio — essa afferma — è che «le leggi, che dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni», a causa del prevalere di poteri e interessi forti, finiscano col trasformarsi in «leggi “particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno)» (n. 8). Come non pensare all’abuso al quale oggi assistiamo, da parte di chi ha il potere, di emanare leggi destinate chiaramente a tutelare interessi particolari (o addirittura personali) del leader e dei suoi sostenitori?

In secondo luogo, la Nota denuncia il pericolo che la democrazia in Italia degeneri in «populismo», per cui «il parlamento corre il rischio di essere ridotto a strumento di semplice ratifica di intese realizzate al suo esterno, con il conseguente impoverimento della funzione delle assemblee legislative» (ivi). È esattamente quanto sta accadendo oggi. Come non pensare alla presente delegittimazione dell’attività parlamentare (spesso bloccata da disegni di legge blindati e sottratti al necessario dibattito), e anche di altre fondamentali istituzioni dello Stato, in seguito ai continui attacchi alla Magistratura, alla Corte costituzionale, alla stessa Presidenza della Repubblica? E che dire della delegittimazione di altre essenziali forme di rappresentanza democratica, come nel caso dei sindacati?

Infine, la Nota punta il dito contro una classe politica che, «con il suo frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, […] annulla reati e sanzioni e favorisce nei cittadini l’opinione che si possa disobbedire alle leggi dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o persino premiata la loro trasgressione della legge» (n. 9). Come non pensare a quanto accade oggi, quando l’attuale classe dirigente si serve del potere legislativo per sottrarsi alla giustizia, emanando leggi ad hoc per garantirsi l’immunità (come la legge che depenalizza il falso in bilancio e il «lodo Schifani» per sospendere i processi alle più alte cariche dello Stato)? Quale senso della legalità e dello Stato si potrà mai diffondere nel Paese, di fronte a simili comportamenti della classe politica?

Perché non richiamare quegli insegnamenti, oggi che le storture allora denunciate si sono ulteriormente accentuate, come già fece la Commissione ecclesiale «Giustizia e Pace» in occasione di Tangentopoli, con la Nota: Legalità, giustizia e moralità, del 20 dicembre 1993? Il silenzio sui «punti di sofferenza» appare dunque inspiegabile ed è difficile controbattere a quanti avanzano il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici (si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia).

 

3. Il ruolo del laicato

In ogni caso, anche nell’ipotesi che i vescovi escano dalla loro afasia, ben poco servirebbero le loro parole senza la presenza in Italia di un laicato consapevole delle proprie responsabilità. Gli stessi laici, mentre giustamente chiedono ai Pastori di non tacere di fronte ai gravi interrogativi suscitati dell’attuale situazione del Paese, si interroghino però seriamente per vedere che cosa essi stessi possono e devono fare. Infatti — spiega il Concilio Vaticano II — dai loro Pastori «i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non si aspettino, però, che i loro Pastori siano sempre esperti a tal punto che, a ogni nuovo problema, anche a quelli più gravi, possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e prestando fedele attenzione alla dottrina del Magistero» (Gaudium et spes, n. 43).

In altre parole, l’orientamento dei Pastori è sì necessario, ma non potrà mai supplire alla mancanza di maturità spirituale e di competenza professionale dei laici impegnati in politica. Dopo oltre cent’anni di Dottrina sociale della Chiesa e dopo oltre cinquant’anni di vita democratica in Italia, non dovrebbe essere difficile distinguere un programma politico dall’altro, coglierne la differente ispirazione ideale e le implicazioni etiche, giudicarne la consonanza o meno con gli ideali cristiani.

D’altra parte, i criteri fondamentali dell’agire cristiano in politica dovrebbero essere noti a tutti. Non è certamente necessario che i vescovi ribadiscano la legittimità del pluralismo politico dei cattolici, dopo che Paolo VI — rifacendosi al Concilio Vaticano II — ha insegnato a chiare lettere che «nelle situazioni concrete e tenendo conto delle solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi» (Lettera apostolica Octogesima adveniens, n. 50). Parimenti, i fedeli laici dovrebbero sapere bene che pluralismo non è sinonimo di indifferentismo; che i diversi programmi politici non si equivalgono; che l’ispirazione cristiana non funge solo da coscienza critica, respingendo quanto vi può essere di negativo in una cultura politica o in un programma di partito, ma funge soprattutto da stimolo propositivo e creativo, spingendo cioè alla realizzazione di una società ispirata alla visione cristiana della vita e della storia.

Applicando questi criteri alla situazione italiana di oggi, i fedeli laici responsabili possono già da soli trarne le conclusioni operative.

Non c’è dubbio, invece, che sia necessario un chiarimento da parte dei vescovi sulle implicazioni etiche e sociali delle filosofie politiche dei due poli. Di fronte al dilagare della cultura neoliberista (che è all’origine dei «punti di sofferenza» ricordati all’inizio), come esimersi dallo spiegare le ragioni per cui essa è lontana dall’insegnamento sociale della Chiesa? Perché tacere sulla responsabilità morale e storica di quei cattolici che, pur soffrendo e sforzandosi di «migliorare» leggi che sono in contrasto con la cultura cristiana, finiscono poi col votare il programma neoliberista, contribuendo così a costruire un modello di società, non solo difforme dalla Dottrina sociale della Chiesa, ma incapace di risolvere i problemi di una Italia «a due velocità», perché fa ricadere sui più deboli il peso maggiore di riforme destinate a premiare i più forti? I dati più recenti dimostrano che non si tratta affatto di un pregiudizio dei «comunisti», come si vuole far credere. Secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes, le famiglie italiane che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, un anno fa erano il 38,7%, oggi sono il 51,2%.

Perché, infine, i vescovi non intervengono a sostenere tanti fedeli laici impegnati (anche attraverso significative esperienze di formazione sociale e politica) a trovare una forma nuova di presenza adeguata alle sfide attuali, senza rimpianti per il passato, per edificare insieme con tutti i «liberi e forti» una democrazia compiuta?

 

 In conclusione, il dibattito sul silenzio dei vescovi, affrontato nei suoi veri termini, non solo non è irrispettoso, ma anzi può risultare proficuo e può suscitare quel soprassalto di coraggio evangelico di cui oggi ha bisogno tutta la Chiesa italiana, Pastori e laici insieme.

   

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